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Il giorno del suo matrimonio, mia sorella Antonietta, bella come il sole, aveva raggiunto il piazzale del borgo abbandonato di Pentedattilo tra gli applausi dei suoi amici, di quelli di Pietro e dei parenti di entrambi, poi mano nella mano di mio padre aveva fatto ingresso maestoso nella piccola chiesetta finalmente riaperta.

Io, dal mio posto a lato del vescovo, insieme con gli altri testimoni, non ero riuscito a godermi la funzione. Avevo caldo, sentivo mancarmi l’aria e in più non potevo fare a meno di guardare compulsivamente tra la folla. Non verso ospiti seduti negli scranni o stipati in piedi al caldo con noi della minuscola chiesetta, ‘ché quelli erano parenti, perlopiù, e li conoscevo tutti almeno di vista. Guardavo tra la gente assiepata fuori dalla porta, piuttosto. Erano in parte sconosciuti, e sono convinto ci fosse in mezzo anche gente del luogo, incuriosita. Andavano e venivano, si sporgevano a guardare, tornavano fuori a fumare. Tra questi, a un certo punto, a metà funzione, vidi il ragazzo che mi aveva portato in tour per il paese e poi mi aveva abbandonato al buio.

Così da quel momento, sudando sotto al mio papillon troppo stretto e a quel maledetto vestito sintetico, contavo i minuti che mi separavano dalla fine della funzione. Lo rividi una seconda volta, quasi alla fine della funzione, durante l’omelia. Era apparso sullo sfondo, bianco come un cencio, esile come lo ricordavo. Aveva indosso lo stesso giubbotto di jeans, assurdo per la stagione estiva, così abbottonato, con la lana all’interno, ma lui fresco e immune a quel caldo che ci opprimeva tutti, costringendoci ad asciugarci le tempie imperlate. Quando era apparso la terza volta, lentamente si era fatto avanti, inosservato, fino a raggiungere l’uscio della chiesa. A quel punto mi aveva sorriso, potrei giurarci, rendendo ancora più palese il mio nervosismo.

Continuavo a non darmi tregua sul mio sgabello da testimone della sposa in modo forse troppo vistoso, tant’è che Claudia, la mia ragazza, di fianco a me, cominciò a darmi dei colpi con il piede per farmi capire che stavo esagerando. Io la ignoravo. Non potevo perderlo, quel piccolo stronzo. Non più. Doveva intanto spiegarmi perché mi avesse abbandonato al buio. Poi perché nessuno in paese lo conosceva, e com’è che una giornalista vent’anni prima riportava di avere incontrato uno troppo simile a lui. Cos’erano, una setta? I figli del demone, tutti vestiti in jeans? Cristo, dovevo fermare quel ragazzino, a costo di rovinare la funzione di mia sorella. Ma alzarmi era davvero impossibile, ero praticamente sul pulpito. Così mi risolsi ad alzare la mano, attirando l’attenzione di tutti gli invitati, per far cenno al ragazzino, che intravedevo ancora sullo sfondo, per fargli capire che avrebbe dovuto aspettarmi. Provocai una serie di sguardi e di cenni degli invitati, convinti che stessi parlando con ognuno di loro, ma lui no, non si mosse. Stava immobile tra la folla all’ingresso. Non lo perdevo di vista, ma arrivò il momento in cui dovetti per forza scambiare un cenno di pace, e in quel momento, approfittando della mia distrazione, sparì di nuovo.

Finita la funzione, baciai Pietro e mia sorella e quasi stavo dimenticandomi di firmare il registro, dalla fretta di scappare fuori. Espletai anche quel rito, poi letteralmente mi fiondai sul piazzale rabbia e sudore. Fuori il sole mi accecò, e il caldo si triplicò. Imprecavo sommessamente: del ragazzo neanche l’ombra, e in più tutti mi chiamavano, mi urtavano, mi distraevano. Stavo per rinunciare quando lo vidi ancora. In basso, giù, tra i ruderi. Allora feci un balzo e mi lanciai a perdifiato fuori dalla folla. Imboccai la strada del ritorno a valle e dopo pochi metri voltai a destra, calandomi a fatica da dei gradini avvolti dai rovi. Sentivo pungermi le caviglie, avevo il cuore alle tempie e il sudore in gola. Stavo per gridare il suo nome ad alta voce, quando lo vidi, seduto sull’uscio di una porta chiusa.

Tranquillo, col suo sorrisetto da bravo ragazzo stampato in faccia. Lo raggiunsi senza più fretta: era evidente che mi aspettava, che non sarebbe scappato. Quasi non respiravo dal caldo. Avevo i crampi allo stomaco, il respiro pesante e un formicolio che mi attanagliava le gambe e le braccia. Lui era lì. La pelle anemica, il giubbotto di jeans, non una goccia di sudore. Mi guardava e aspettava, il sorrisetto beffardo. Finalmente arrivai alla base delle scale in cima alle quali sedeva. Erano una decina di gradini, non di più. Li imboccai con foga ma dovetti subito ritirarmi. La testa mi girava. Avevo troppo caldo, non respiravo, vedevo bianco. Sembravo in preda a un’insolazione o a qualcosa di simile.

Così mi afferrai alla vecchia ringhiera di ferro e delle tante domande che da mesi mi assillavano pronunciai solo la più elementare: “Tu chi sei?”. Continuava a sorridere, immobile e muto. Tenendomi dalla ringhiera feci un altro gradino e disarticolai dislessico: “Chi cazzo sei?”. Parlò, ma la voce non era quella monocorda, che ricordavo. Era più acuta, infantile. Parlò in dialetto, come non ricordavo di averlo mai sentito il giorno del nostro primo incontro. So era alzato in piedi e ne stava in piedi sulle scale, incombente su di me, che mi aggrappavo alla ringhiera. Disse solo, più volte, lentamente:

“Tutti mòranu”, tutti muoiono, o perlomeno io solo questo ricordo. Disse anche, con una risata stridula, qualcosa tipo “buona festa”, ma da quel punto in poi non ho più ricordi. Perché subito dopo rivoltai gli occhi indietro, le forze mi lasciarono, e caddi sulle scale, scivolando all’indietro. Mia cugina Cristina mi aveva visto per puro caso. Si era allontanata dalla confusione per telefonare. Aveva fatto pochi passi all’indietro e si era accesa una sigaretta sporgendosi dal belvedere per perdersi dentro a quello straordinario panorama. Poi mi aveva notato, accasciato di spalle su quei gradini, e per fortuna aveva deciso di risolvere da sé la situazione. Per non creare allarmismi, mi disse poi. Era ridiscesa velocemente tra quegli arbusti, puntando i tacchi nel terreno, per non cadere.

Mi aveva raggiunto e girato su un fianco. Ero svenuto, racconta lei, o perlomeno ero in stato di profonda incoscienza. Così aveva iniziato a schiaffeggiarmi, a farmi aria con un ventaglio e a bagnarmi collo, polsi e labbra. Un colpo di sole, secondo lei, che è infermiera, e personalmente concordo sulla diagnosi. Mi aveva fatto compagnia una decina di minuti, chiedendomi se per caso avessi bevuto già troppo alcol, al buffet del benvenuto in attesa della sposa. Avevo risposto di no, non più del solito. Intanto mi ero ripreso, stavo bene, e insieme avevamo risalito le scale, tornando tra la folla senza farci notare. Le sono grata ancora oggi per tutto, fuorché per una bugia o una disattenzione. Quel giorno, sulle scale, riaprendo gli occhi, le avevo subito farfugliato di un ragazzo con il giubbotto di jeans, ma lei mi aveva subito deluso: “Io ho notato solo te, riverso sulle scale, svenuto”.

11. Continua