Salute

“Nuove terapie e diagnosi precoci. Ecco il futuro della neurologia”

di
Maurizio Maria Fossati
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Alzheimer e Parkinson, le nuove terapie e gli anticorpi monoclonali, accendono la luce della speranza. Ne parliamo con Massimo Filippi, professore ordinario di Neurologia, direttore della Scuola di Specializzazione in Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e direttore dell’Unità di Neurologia dello stesso ospedale.

 

«La malattia di Alzheimer è una tipica patologia del soggetto anziano: più si invecchia e più il rischio cresce – spiega il professore –. Si tratta di una malattia neurodegenerativa del sistema nervoso centrale che causa demenza. E, demenza, significa che la persona ha perso alcune funzioni cognitive che aveva acquisito durante la vita con un conseguente impatto negativo sull’autonomia nelle attività quotidiane».

 

Ma, professor Filippi, perché ci si ammala di Alzheimer?

«La causa è multifattoriale: ambientale, determinata dallo stile di vita, e dalla predisposizione genetica. Ma, tenendo conto che solo la minoranza dei casi di Alzheimer nasce su base genetica, dobbiamo prestare grande attenzione alla prevenzione soprattutto se si considera l’allungamento della vita degli ultimi decenni. Secondo i più recenti sondaggi, in Italia soffrono di demenza circa 1 milione di persone, di cui 600mila sono affette da malattia di Alzheimer. Ma le previsioni sono ancora più allarmanti: nel 2050 si prevede che i pazienti con Alzheimer al mondo saranno ben 52 milioni. Chi non vuole entrare in queste statistiche dovrà quindi mantenere negli anni una buona attività fisica e mentale: sport aerobici, passeggiate, rapporti sociali e culturali, cinema, teatro, studi e letture che vadano a creare una sorta di ‘riserva cognitiva’ da spendere quando il cervello comincerà a ‘perdere colpi’. La dieta deve essere sana e ricca di antiossidanti e antinfiammatori naturali».

 

Qual è il meccanismo che deteriora il cervello?

«La colpa è di due proteine, la beta-amiloide e la tau, che si aggrovigliano e si depositano nel cervello, interferendo con la comunicazione tra le cellule nervose (neuroni) e danneggiandole fino a distruggerle».

 

Ci sono rimedi? Quali le ultime scoperte della medicina?

«Non disponiamo ancora di armi per guarire l’Alzheimer. Abbiamo solo farmaci per rallentarne di qualche mese la progressione. Ma nuove speranze e nuovi orizzonti si stanno aprendo. L’FDA statunitense ha approvato due nuovi farmaci (anticorpi monoclonali) in grado di rimuovere la proteina amiloide. L’EMA in Europa si pronuncerà a breve. Gli anticorpi monoclonali hanno mostrato un’azione fisiologica rilevante sulla malattia. La conferma di questo traguardo è un successo e renderà importante, nel futuro, fare diagnosi precoce».

 

Come si riesce a fare diagnosi?

«Con l’analisi clinica e gli accertamenti strumentali. La risonanza magnetica ci permette di rilevare le specifiche zone di atrofia cerebrale, cioè di tessuto perso, soprattutto nella regione temporo-mediale (ippocampo) che è la struttura preposta alla memoria. Ma disponiamo anche di esami di medicina nucleare (PET) in grado di mostrare la ridotta attività metabolica di alcune zone cerebrali e vedere i depositi di proteine nel cervello. Un altro approccio è quello di eseguire un prelievo con puntura lombare (rachicentesi) per misurare la quantità di proteine tau e beta-amiloide presenti nel liquor, il liquido cerebrospinale. Infine, si stanno finalmente sviluppando tecniche per misurare queste proteine anche nel sangue, un metodo molto più semplice e pratico anche nell’ottica di screening più ampi della popolazione».

 

Parkinson, l’altra malattia neurodegenerativa che fa registrare grandi numeri.

«Certo. Si calcola che in Italia siano 300mila i pazienti affetti da Parkinson, malatttia che causa la progressiva perdita di attività motoria ed è caratterizzata da rallentamento dei movimenti e da tremore. In questo caso la degenerazione cerebrale avviene nella ‘sostanza nera’, ricca di neuroni dopaminergici preposti all’attività corticale del movimento. Anche qui il danno è causato dal deposito di una proteina anomala, l’alfa-sinucleina».

 

Possiamo individuare dei campanelli d’allarme?

«Sì, ansia, depressione, stipsi e perdita dell’olfatto possono comparire anni prima. E solitamente l’arrivo del Parkinson viene anticipato da sonni agitati, nei quali le persone gesticolano, si muovono e parlano mentre dormono. Una caratteristica che può essere ben notata dal partner».

 

Poi qual è la cura?

«Come nel caso dell’Alzheimer, non disponiamo ancora di una cura in grado di cambiare la storia clinica della malattia. Il farmaco principalmente adottato è la levodopa, distribuito sempre meglio nell’arco della giornata per evitare i cosiddetti fenomeni on/off. Anche per il Parkinson, comunque, sono in fase di sviluppo nuovi studi con l’impiego di anticorpi monoclonali e altri tipi di farmaci per rimuovere l’alfa-sinucleina. Nel caso di pazienti che non rispondono più alla terapia classica con levodopa, si ricorre alla stimolazione cerebrale profonda realizzata con l’inserimento di sottilissimi aghi che fungono da elettrodi intracerebrali comandati da una centralina posizionata sottocute, come si fa con i pacemaker».

 

IL PROFILO

Massimo Filippi è professore ordinario di Neurologia e direttore della Scuola di Specializzazione in Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele. Dirige l’Unità di Neurologia, il servizio di Neurofisiologia e l’Unità di Neuroriabilitazione dell’Ospedale IRCCS San Raffaele. E’ presidente del Corso di Laurea in Fisioterapia e membro del Comitato di Direzione del Centro Interfacoltà per gli Studi di Genere dell’Università Vita-Salute San Raffaele. E’ inoltre presidente della Giunta del Collegio dei professori ordinari di Neurologia. Editor-in-Chief del Journal of Neurology e Associate Editor delle riviste Radiology e Neurological Sciences, è autore di oltre 1500 pubblicazioni scientifiche peer-reviewed, per un H-index 138 (Scopus).

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