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Pietro Leeman, chef etico e romantico: al Joia di Milano brilla la stella vegetariana

di PAOLO GALLIANI -
27 febbraio 2022
Pietro Leeman

Pietro Leeman

Milano - Le vetrine che danno su strada non sono mai neutre. Quelle del ‘Joia’, a Milano, ancora meno. Ha la loquacità dei luoghi che raccontano chi li abita. Perché se il posto è speciale, lo è anche l’uomo che ha scelto di esporre alla vista dei passanti libri colti e rivelatori, che celebrano il cibo consapevole, le virtù delle piante medicinali e l’importanza dello spirito rispetto alla materia. Appunto. C’è Pietro Leemann ad accogliere l’ospite, gigante buono e anima lunga di una cucina vegetariana che grazie a lui è uscita dalla periferia concettuale in cui veniva abitualmente relegata per diventare la forma evoluta di alimentazione che non intristisce, ma al contrario, fa bene all’organismo. È lo stesso chef a ricordarlo: le prime esperienze nella sua amata Svizzera, ad acquisire i primi rudimenti nel suo Canton Ticino. Poi il salto di qualità, alla corte di due grandi dell’haute cuisine come Fredy Girardet e Gualtiero Marchesi. Infine, l’illuminazione. “Per carità, la loro era una cucina di livello eccelso – ricorda – ma dove l’aspetto dell’equilibrio alimentare non era così fondamentale. Avevo solo 23 anni ma cercavo altro”. E alla fine l’aveva trovato, concedendosi un viaggio di due anni e mezzo in Oriente, tra Cina, Giappone, India e verificando di persona quello che aveva già intuito: sfamarsi con i legumi, gli ortaggi e i cereali non è tutt’altro che una rinuncia. “Praticavo sport e mi sentivo più competitivo, studiavo ed ero più lucido. Mi ammalavo anche meno”. Come dire: Leemann aveva trovato la sua strada. Era il 1989 quando decise di aprire un proprio locale in via Panfilo Castaldi a Milano, appunto il ‘Joia’, mix di eleganza e sobrietà in un quartiere spettinato e multietnico come quello di Porta Venezia. E dopo l’iniziale rodaggio, il grande riconoscimento, nel ‘96: primo ristorante vegetariano d’Italia e d’Europa a ottenere la stella Michelin e, in aggiunta, uno dei primi, nel 2020, a ottenere la stella verde assegnata dalla stessa ‘guide rouge’ a chi valorizza la sostenibilità. Pazzesco. Era come certificare che melanzane e topinambur sono l’antitesi della tristezza. “Pregiudizio diffuso ma assurdo. Il buono non appartiene solo alla carne. E nemmeno la consistenza. Io mi limito interpretare il mondo vegetale e a liberare la sua incredibile versatilità gustativa ed evocativa”, racconta, accomodandosi nella Sala Cielo, a fianco della teca di vetro che custodisce una grande scultura di Krishna, dio dell’amore universale e nume tutelare della cultura vegetariana nella patria di Gandhi. Leemann insiste: “Siamo il cibo che mangiamo”. E le pietanze che arrivano ai tavoli diventano rivelatrici di una cucina circolare che deve e vuole avvicinare le persone. C’è il ‘Piatto Quadro’, opzione dal prezzo democratico che si sublima in una composizione di 5 elementi, ovvero un antipasto, una verdura cotta, una proteina, un carboidrato e un dolce. E c’è la formula dei 'Tre piatti', con portate light dove brilla la terrina ‘Oh mio caro pianeta’ che beffa l’inviso foie-gras preferendogli ovviamente il più gentile noix-gras abbinato alla mela grigliata. Ovvio, certi viaggi meritano esplorazioni approfondite, semmai accettando lo stress di dover scegliere tra le 6 o le 8 portate delle degustazioni ‘Enfasi della Natura’ e ‘Zenith’. Spunta pure il ‘Due passi indietro, tre in avanti’, spiedino con tempeh, batata e cavolini di Bruxelles, gioco di kimpira e verdure fermentate e sembra la metafora del Joia e del suo profeta. Che si autodefinisce “un timido che ha imparato ad aprirsi. E a diventare estroverso”. Che a 60 anni, accetta di pensare che o prima o poi dovrà passare la mano “con serenità, sapendo che chi collabora con me da anni, saprà fare vivere a lungo questo posto”. E che in un futuro lontano, si immagina a invecchiare nella sua Svizzera e certamente in montagna, luogo del silenzio e della meditazione. Proiezione distintiva. Per tutti gli altri, l’esistenza può essere una giostra, un’autostrada o un’insopportabile prigione. Per lo chef più romantico ed etico della cucina italiana, la vita è un bellissimo orto.