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Questa è la Ferrari di De CoubertinLeo Turrini - 28 agosto 2020
  1. Mettiamola così.
    Calgary 1988. Albertville 1992. Lillehammer 1994. Nagano 1998. Salt Lake City 2002. Torino 2006. Vancouver 2010.
    Barcellona 1992. Atlanta 1996. Sydney 2000. Atene 2004. Pechino 2008. Londra 2012. Rio 2016.
    Sono tutte le Olimpiadi, invernali e estive, che ho avuto il piacere di raccontare dal vivo.
    Il Cio ha pure avuto la bontà di premiarmi, essendo io il giornalista recordman di partecipazioni ai Giochi dopo i miei maestri Gian Paolo Ormezzano e Rino Tommasi.
    Molto bene.
    Diciamo che riconosco il valore dello sport olimpico, al netto di business e doping.
    Cioè, come diceva il barone De Coubertin, l’importante è partecipare.
    Ma non in Formula Uno.
    Non se ti chiami Ferrari.
    Leggendo le classifiche di Spa, quindicesimo Leclerc e diciassettesimo Vettel, mi sono venuti gli stranguglioni.
    C’è modo e modo di perdere.
    Sommessamente, io ritengo sia stato un errore, da parte di John Elkann, pubblicamente posticipare al 2022 qualunque velleità di successo.
    Capisco il realismo, ma nel frattempo che facciamo?
    Subiamo il doppiaggio su ogni pista, anche sul mezzo ovale del Bahrain prossimo venturo?!?
    Ho già detto, privatamente, a chi comanda che il problema non è la oggettiva, inevitabile traversata del deserto.
    Io ci sono già passato.
    Il problema è: sappiamo dove stiamo andando?
    Abbiamo davanti non dico un Mose’, ma un Aronne?
    (So che l’ignoranza è tremendamente diffusa e ne trovo spesso spettacolari esempi qua sotto. Poiché immagino che per taluni andare in una libreria sia meno attraente di una gita al Billionaire, via, una Bibbia in casa dovreste pure avercela).
    Per ora, Mattia Binotto somiglia invece al barone Pierre De Coubertin.
    L’importante è partecipare.
    Fino a quando?