Alberto Antonini se ne è andato.
Siamo stati giovani assieme. Lui arrivò sui circuiti un po’ dopo di me e mi venne naturale stringere amicizia con un conterraneo, un collega che apparteneva alle mie stesse radici e che aveva la bontà di vedere in me medesimo un punto di riferimento.
Ci siamo voluti bene pur avendo poco in comune: lui si occupava professionalmente soltanto di motori, che per me erano e sono si’ e no il trenta per cento della mia attività.
Eppure, per anni sono stato io ad abusare della sua cortesia. Ad ogni occasione, su cose tecniche da F1 andavo da lui a chiedere soccorso e mai una volta che mi abbia negato un aiuto, un parere, un giudizio.
Quando Maurizio Arrivabene mi disse che voleva Alberto come pierre Ferrari, provai felicità per lui: sapevo che era il suo sogno, me lo aveva confidato mesi prima, guidando lui una assurda Mazda per raggiungere gli studi Sky a Rogoredo.
Eravamo fratelli distinti e distanti. Lui mi diceva: vorrei scrivere bene come te. Io gli rispondevo: forse io scrivo meglio di te, ma non capisco di F1 come te. E lui rideva e mi raccontava dei suoi gatti e di notti insonni e di mille cose che il vento della vita ha portato via.
Era già malato e gli telefonai. Aveva un respiro che era un sospiro. Mi spiegò che forse se ne sarebbe andato senza rivedere un pilota Ferrari campione del mondo.
Manco io ci riuscirò, risposi in un suono flebile senza eco.
Ciao, fratello.
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