Avverto subito tutti: questo è un post lungo e MOLTO fuori tema (off topic, direbbero i moderni), se cercate la pallavolo in queste righe. Ma se volete una storia che non stia dentro scatole ovvie e confini scontati, come ho cercato di raccontare dal primo post ormai 701 volte fa, allora credo che siate nel posto giusto.

Ieri è morto Ermes Rinaldi. Se c’era un ‘oste’, a Modena, quello era lui. Aveva un locale piccolo, l’Osteria Ermes, in pieno centro, con un’insegna gialla scritta in un carattere fuori moda, che riportava alla mente immediatamente gli anni del boom del dopoguerra. Sarebbe stata perfetta dentro un film neorealista, l’osteria, e Ermes era un personaggio per certi versi felliniano, il frontman di un duo che comprendeva la moglie Bruna ai fornelli. Se non ci credete, cercatevi su facebook un video in cui Ermes spiega come faceva le lasagne.

Ora, io conosco a questo livello geo-gastronomico solo Modena e Bologna, e so che anche a Bologna c’erano (e almeno in un caso ancora ci sono) personaggi di questo tipo. Quelli che il Guccio ha reso immortali nella sua Canzone delle osterie di fuori porta che ho messo in sottofondo mentre scrivo queste righe. L’oste che cucinava per Guccini da Vito ci ha lasciato non tanto tempo fa, a proposito.

Immagino che ce ne sia uno in ogni città. Ho la fortuna di essere cresciuto in una terra che ha un rapporto quasi erotico con il cibo, e pazienza se ho la pancia, dentro ci sono secoli di storia della mia terra, negli anni ho nutrito l’anima, non solo il colesterolo.

Perché il punto è proprio questo: Ermes non è il primo oste che muore, non sarà l’ultimo, non credo fosse molto diverso dai suoi ‘fratelli’ di Modica o di Noventa Vicentina, di Santa Maria di Leuca o di Saluzzo. Io sono sicuro che ognuno di voi abbia un Ermes, nella propria città.

E non si tratta solo di cucinare bene, anche se quello è ovviamente importante, non è un caso che Ermes fosse il maestro riconosciuto di un certo Massimo Bottura. Dettaglio fondamentale, perché l’oste della tradizione sapeva che il cuoco di fama mondiale sentiva il debito nei suoi confronti, e lui, l’oste, vedeva di buon occhio le sperimentazioni del giovane, perché sapeva che alle spalle c’era un mondo che anche così non andrà mai perso.

Ecco, al punto ci stiamo arrivando. Al rapporto tra la storia che non vuole dimenticare e il futuro da inventare.

Non è un post nostalgico, ve lo giuro. Mi preoccupa di più aver perso uno straordinario collante di una comunità.

Di cuochi bravi ce ne sono e ce ne saranno tanti. Ma Ermes era un sacerdote laico della convivialità. L’ho già scritto: da ieri siamo tutti più tristi, ma io sono felice di aver fatto in tempo a portarci mio figlio, qualche anno fa. E mi porto nel cuore il modo in cui Ermes guardò il mio Davide, che aveva dieci-undici anni, quando sentì che il ragazzino parlava anche in dialetto. Il modo in cui gli rispose, con l’affetto e l’orgoglio di un nonno che scopre un nipote fino a quel momento sconosciuto.

Stamattina ho chiesto a mio figlio che cosa ricordasse di quel giorno di qualche anno fa, era la vigilia di Natale, tra gli antipasti ci diedero la ‘stortina’, un’anguilla marinata che da noi si mangia per tradizione, il 24 dicembre.

Davide mi ha risposto così: “Sembrava di essere a casa, ci trattavano come se fossimo amici da sempre, Ermes ci spiegava i piatti e poi andava al tavolo di fianco a scherzare con gli altri, poi hanno tirato fuori delle carte e si sono messi a giocare. I piatti erano buonissimi, ma la cosa diversa era l’atmosfera. Mi sembrava di essere un cliente di quel posto da sempre. E nessuno aveva uno smartphone, in nessun tavolo”.

Quel giorno finimmo allo stesso tavolo con Ermes e i suoi amici, perché erano rimasti tre posti liberi. Davide era a capotavola e guardava. Chiacchierammo come si fa tra vecchi amici.

Uscimmo con la pancia piena, ma il cuore anche di più.