Non volevo scrivere della morte di Kobe Bryant, perché non l’ho conosciuto direttamente, non ho particolari speciali da aggiungere, non ho momenti ‘inediti’ da condividere: per come la vedo io, sarebbe l’unica ragione per intervenire e dire la propria quando succede una cosa di cui parlano tutti. Esprimersi senza aver niente di nuovo da dire è un meccanismo tipico del mondo ai tempi dei social, al quale quando posso cerco di sottrarmi.

Quindi non è della tragedia che ha colpito la famiglia di Kobe e tutte le altre famiglie coinvolte, che si parlerà qui. Per le notizie si può consultare il nostro sito qui.

Quello che mi interessa è ragionare insieme su alcune alterazioni della realtà che si verificano in casi come questi, come se si entrasse in una dimensione parallela. Perché se fossimo ancora ancorati a terra, certe cose non potrebbero succedere: solo in un mondo virtuale è possibile che un partito, in questo caso la Lega Nord, metta un’esortazione al voto nelle regionali sotto un messaggio di lutto per uno sportivo che vive a Los Angeles. O che due campioni di fama mondiale come Cristiano Ronaldo e Luis Figo pubblichino lo stesso messaggio, identico fino alle virgole, per esprimere il loro cordoglio (ovviamente, è la pigrizia di chi gestisce i social per conto dei due portoghesi, evidentemente la stessa società e la stessa persona, ad aver provocato la brutta figura mediatica).

L’altro lato della medaglia è la necessità di molti altri personaggi pubblici di esprimersi su quello che è successo. In questo caso è la morte di Kobe, ma è successa la stessa cosa per altri eventi di portata simile. Non giudico la spinta umana: troppo soggettiva è la scelta della forma con cui rispondere a un’urgenza intima. E da addetto ai lavori so benissimo che in alcuni casi, un post è anche una strategia di comunicazione per evitare di dover rispondere a cento domande spesso uguali di noi giornalisti. Questo lo capisco di più.

In questi giorni, leggendo le lettere aperte di LeBron James e di Allen Iverson, solo per citarne due, mi sono anche reso conto che un mondo come la Nba è più abituato ad esporre pubblicamente tutte le proprie emozioni. In realtà, molti di noi lo fanno, sempre sui social, da mattina a sera per cose anche molto meno importanti (almeno a mio giudizio). E questo è l’altro punto su cui è giusto riflettere: lo spostamento della sfera privata in momenti come quello del lutto a una sfera collettiva.

Ammetto che a me questo dia fastidio. Soprattutto quando c’è gente che si impiccia delle emozioni altrui. La rincorsa all’intervento pubblico, al like, al commento sotto i post degli altri, ad ogni costo.  Non c’è scritto da nessuna parte, che bisogna per forza intervenire su tutto. Quelli che lo fanno si illudono che al mondo, là fuori, interessi il loro fondamentale e insostituibile parere. Vi svelo un segreto: non è mica vero.

Perché le nostre parole abbiano un senso, dobbiamo farne un uso più accorto. Evitare di consumarle. Anche perché dopo un po’ non ci ascolterà più nessuno, diventeremo rumore di fondo.