Nel volley ci sono stati due casi ‘ufficiali’, uno in A2 con la brasiliana Tifanny, un altro in Romagna nelle serie minori. Parlo di atlete transgender, uomini diventati donne che competono nei campionati femminili. E’ capitato qualche anno fa, ma il tema sta diventando sempre più di attualità, col passare degli anni. Perché lo sport è il primo luogo dell’inclusione su scala mondiale, permette a razze e colori di incontrarsi nello scontro agonistico e di abbracciarsi fuori dal campo, eppure sta facendo una fatica pazzesca a rapportarsi con soggetti che sfuggono a una catalogazione binaria.

Oddio, non che la società sia messa molto meglio, in generale. Ma che fatichi lo sport, considerando quanto si dovrebbe fondare sugli ideali, è particolarmente significativo.

Che ci sia questa difficoltà, lo si intuisce provando ad unire i puntini. Quelli recentissimi sono tre, ma aprono gli occhi a voler vedere e non solo guardare. Il primo si chiama Caster Semenya, che in questo terreno ha fatto suo malgrado da apripista. Mezzofondista sudafricana dai caratteri fisici molto mascolini, all’inizio della sua carriera fece sbottare l’italiana Elisa Cusma dopo averla battuta: “Ma lei è un uomo“, disse l’atleta emiliana. La Semenya vinse di tutto, olimpiadi, mondiali, mentre il mondo dello sport iniziava a porsi il problema. Raccontò anche di essere stata costretta a pratiche odiose, fare ‘vedere’ di non essere un uomo a un allenatore. Ma è indubbio che dopo la sua apparizione sulla scena sportiva mondiale tutte le ricerche scientifiche abbiano subito un’accelerazione, per arrivare a stabilire con un parametro oggettivo chi potesse correre tra le donne e chi no, nel senso (giusto) della ricerca di un’equità competitiva. Con gli anni, la federazione mondiale dell’atletica è arrivata a definire come punto discriminante i livelli di testosterone: da un po’, chi li ha troppo alti non può competere in alcune gare nelle quali la forza e la resistenza superiori danno vantaggi. Oppure per competere deve sottoporsi a terapie di riduzione del testosterone. E questa è una cosa che ha risvolti parecchio pericolosi, perché lo stesso mondo dello sport che da anni predica, ed è sacrosanto, che non si possa gareggiare senza assumere sostanze esterne, poi obbliga alcuni atleti a farlo per poter scendere in campo. E’ un corto circuito che meriterebbe ragionamenti più approfonditi.

Andiamo oltre. Pochi giorni fa la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo ha stabilito che Semenya è stata discriminata, per essere stata obbligata a sottoporsi alle cure di riduzione del testosterone.

Ieri invece Valentina Petrillo, arrivando terza nei mondiali paralimpici, ha ottenuto il pass per le prossime paralimpiadi (per la nazione, non individuale, ma la sostanza non cambia): è la prima atleta trans a riuscire nell’impresa.

Infine, oggi l’Unione Ciclistica Internazionale ha annunciato “l’esclusione dalle competizioni internazionali femminili, di tutte le categorie, delle atlete transgender che hanno effettuato la transizione dopo la pubertà”. Per il presidente David Lappartient è un “dovere dell’ente garantire, soprattutto, pari opportunità tra tutti i concorrenti. Ed è questo imperativo che ha portato l’Uci a concludere che non era possibile, in via precauzionale, autorizzare le atlete transgender a correre nelle categorie femminili”.

Ho molti dubbi, sull’uso corretto del termine ‘pari opportunità‘. Ma è un dato di fatto che i tempi stanno portando tutto lo sport a doversi rapportare a questo tema. Prima di arrivare a una decisione giusta per tutti (e io non ne ho una pronta, sia chiaro), temo che dovremo andare a tentoni con mezze decisioni sbagliate.