Vasilij Grossman, che lo si dica come promemoria, autore di “Vita e destino” che è uno dei più grandi romanzi russi del secolo scorso, secondo alcuni, superiore al “Dottor Zivago”, aveva un paio di difetti imperdonabili. Aveva il vizio di raccontare quello che vedeva e il difetto di voler vedere quel che accadeva prima di scriverne, e di osservarlo possibilmente da una postazione, la più vicina possibile, in modo da non sbagliarsi. Nonostante questa pretesa, solitamente poco gradita al potere, anche i generalilo riconoscevano come ilmiglior corrispondente di guerra e per questo fin dagli esordi del secondo conflitto mondiale venne mandato al fronte, anzi ai fronti, a quasi tutti i fronti, da Brjansk a Stalingrado, da Kursk a Odessa, dall’orrore di Treblinka a Varsavia e Berlino. E da questi fronti, nei quali gli uomini morivano a milioni, mandava i suoi resoconti al giornale dell’ArmataRossa,la “Krasnaja zvezda”, Stella Rossa.

DI LUI sono però rimasti inediti gli appunti che raccoglieva dove gli capitava, bastava fosse un pezzo di carta e ora i suoi straordinari taccuini sono usciti in una raccolta ragionata dal titolo Uno scrittore in guerra, editore Adelphi, curatori Antony Beevor e Luba Vinogradova (pagg. 471; € 23). Vasilij poi, diciamolo per completezza, aveva altri limiti non trascurabili. Era un ucraino ebreo e disponeva di un fisico che non aveva nulla a che fare con i guerrieri tanto era gracile e con l’aria smunta, perfino miope come una talpa e con certi occhialini più da topo di biblioteca che da sconsiderato giocatore con la morte.

E POI, oltre a saper guardare, ecco la sua specialità, sapeva far parlare ovvero trovava sempre le notizie e le sue interviste erano straordinarie. Riuscì a far parlare perfino Analij IvanovicCechov, chel’unica cosa che sapeva fare era uccidere, perché era il più micidiale cecchino dell’Armata rossa e a Stalingrado si fece una fama. «Il primo giorno ne ho fatti fuori nove. L’indomani altri otto, più due donne. In otto giorni ne ho uccisi quaranta, tre mirando al petto, gli altri alla testa. Non li guardo mai in viso, faccio attenzione solo alla divisa per capire se sono ufficiali o soldati. Una volta presi vanno giù a testa indietro». Grossman fu anche aKursk, testimone della più grande battaglia di tutti i tempi tra carri armati.E anche in quegli inferni sapeva trovare la leggerezza. Arrivato aPoznan, scrisse: «I combattimenti proseguono nelle strade. Signore con cappellini alla moda e borsette sgargianti lavorano di coltello sulle carcasse di cavallo riverse sul selciato, per tagliar via il filetto». Certe cose se non le hai viste non te le puoi inventare.

NATURALMENTE era sul pezzo, come si dice, anche alla presa di Berlino. A scrivere pagine non sempre luminose. Un ex prigioniero francese gli disse che i russi si sarebbero dovuti vergognare per come trattavano le donne tedesche. Un’accusa infamante che non censurò. Anzi sulle violenze alle donne raccolse molti, troppi appunti. Si rendeva conto che da quandol’Armata Rossa era entrata in Germania era diventata un’orda barbarica e annotò: «Storia della madre di un lattante, violentata in un fienile. I parenti di lei sono entrati nel fienile e hanno chiesto ai suoi assalitori di concederle una pausa perché il bambino affamato nonla smetteva di piangere».  Agghiacciante. Cadde in disgrazia non perché raccontava le cose come si erano svolte ma perché era interessato ai fatti ed ebbe l’imperdonabile colpa di dimenticarsi di dio, di Stalin che gliela fece pagare. Ma non scandalizziamoci troppo. I potenti non amano mai i giornalisti che non li lisciano per il verso giusto