A UN ANNO esatto dal referendum per il ricongiungimento della Crimea alla Russia, che riscosse il 97% dei consensi, il capo del Cremlino Putin anziché celebrare un’analoga vittoria nel conflitto in Ucraina è costretto a rincorrere voci che lo danno in disgrazia. Nell’incontrare il presidente del Khirghisistan – ormai deve consolarsi con l’Oriente perché l’Occidente gli riserva solo dispiaceri – Putin ha fatto lo spiritoso (scrivono le agenzie) dicendo che «senza pettegolezzi si annoia». E i pettegolezzi parlano anche di rischio golpe a Mosca per dare lo Stato a un uomo forte in grado di affrontare non solo i pericoli derivanti dall’Ucraina ma anche le prepotenze degli Stati Uniti. Può darsi che questo «pettegolezzo» sia un’esagerazione, ma qualcosa di vero c’è e comunque ci sono analogie che riportano in modo inquietante alla situazione nel ‘90 e ’91 che precedette il golpe rosso dell’agosto ’91, organizzato dal capo del Kgb, Vladimir Kryuckov.

ANCHE allora il colpo di Stato fu preceduto da mesi di pressioni interne sul presidente Gorbaciov perché si adeguasse a una linea più dura e abbandonasse una politica giudicata perdente e morbida con l’Occidente. La stessa cosa che si dice da mesi di Vladimir Putin le cui vicende private, il divorzio da Ljudmilla e la nuova famiglia con la bella Alina, lo mostrano come distratto e imborghesito, non presente quanto dovrebbe e comunque non all’altezza della risposta che meritano le sanzioni giudicate umilianti per una grande potenza come la Russia. E qual è il nome che aleggia sul Cremlino, come chiacchierato uomo forte che sarebbe in grado di riprendere in mano la situazione? È il ministro della difesa, si chiama Sergeij Shoigu, ha 60 anni, fu nominato da Putin nel 2012 ed è un uomo dell’ex Kgb, che ora si chiama Fsb, perché è stato per ben 21 anni, ovvero dal 1991 ministro per le situazioni di emergenza, terrorismo e tutto ciò che minaccia l’integrità nazionale, persona capace e molto popolare, vista come l’uomo giusto.

Ma ci sono anche altri motivi che lo rendono tale. È un orientale, viene dalla Repubblica di Tuva ai confini della Mongolia, ha ottimi rapporti con la Cina e ha una biografia che sembra fatta apposta per impersonificare la svolta euroasiatica, verso cui si è avviata la Russia dopo gli schiaffi presi dall’Europa e dagli Usa. Nato da padre tuvano e da madre di etnia russa, ha un pedigree perfetto per i nuovi orientamenti. In particolare, da bravo uomo dal pugno di ferro, ha un rapporto privilegiato con il partito comunista e con il suo capo, Gennadij Zjuganov, che ha incontrato più volte e sempre a porte chiuse.
Quale sarà la fine di Putin? Non si sa, ma di certo si capisce che l’Occidente deve stare a non scambiare un Putin con un Shoigu, perché sarebbe un osso molto più duro dell’attuale presidente russo.