Dato per scontato che è tutto da discutere il rapporto tra arte e potere e che è ben difficile trovare casi in cui l’artista risulti effettivamente libero se non da condizionamenti economici e politici da quelli della committenza, vedi anche l’arte sacra, dunque fatta questa premessona, vanno comunque fissate come punti cardiali almeno alcune condizioni. Che l’artista sappia creare un’opera che susciti emozione e coinvolgimento e che l’artista eviti il servilismo e il ridicolo. Fissati questi punti si può sempre discutere se un lavoro sia o non sia opera d’arte.
Proprio per affrontare questa problematica, al Palazzo Te di Mantova, residenza dei magnifici committenti Gonzaga, si sono inventati un gioco molto intelligente che animerà la stagione fino alla chiusura dell’Expo italiana, ovvero l’accostamento tra le provocazioni dell’artista dissidente cinese Ai Weiwei e i quadri della rassegna sul realismo socialista sovietico e italiano. Due esempi del rapporto arte e potere. Fiero e conflittuale il primo, agiografico e propagandista la seconda.
Delle due, lo si dica per sgombrare l’equivoco delle equivalenze, la più interessante è la rassegna italo-sovietica, in particolare la sezione con opere della Galleria Tret’jakov di Mosca e che parteciparono alle Biennali di Venezia negli Anni Trenta e dagli Anni Cinquanta ai Settanta. L’originalità della mostra “Guardando all’Urss” sta nel raccontare come gli artisti italiani vedevano quel realismo ottimista e fortemente pilotato dal partito. Un condizionamento che al di là dei risultati, in molti casi di alto livello, vedi Guttuso, non mancò di indurre al servilismo. Come l’ossequio esagerato ai desiderata ideologici. Stiamo parlando in particolare del periodo tra la seconda guerra mondiale e gli Anni Settanta, quando i nostri pittori venivano frequentemente invitati in Urss, soggiorni che li inducevano a fare dichiarazioni avventate, come accadde a Guttuso: «Qui non c’è bisogno di troppo tempo per capire che non c’è sfruttamento capilastico, che non c’è disoccupazione, che non c’è prostituzione, che non c’è odio di razza».

IL CHE NON esclude che gli artisti realisti, al di là del fatto che fossero definiti o meno artisti ufficiali, siano autori di opere di grande impatto e effetto. In molti casi dove l’elemento ottimistico ed encomiastico risultano prevalenti. Vedi l‘Infanzia felice di Vladislav Michajlovic, la Brigata di lavoratrici di Ivan Juchno o la Distribuzione del grano di Elena Jablonskaja. A differenza dei realisti italiani raccolti dal Premio Suzzara, nato del ’48, data mitica, con la collaborazione di Cesare Zavattini, e che vede artisti come Borgonzoni, Gorni, Mucchi, Pizzinato, Zigaina, Fabbri, Sughi e il già citato Guttuso. Pittori che si muovevano nell’area culturale del Pci con un’offerta spesso improntata alla cupezza del tema lavoro, alla sofferenza della fatica, alla descrizione di una vita che era in attesa di un sole radioso ben lontano dal sorgere.

IL FATTO che il potere sovietico avesse un modo molto aggressivo verso un’arte non accettata, come l’astrattismo, non inquietò più di tanto i sonni dei nostri intellettuali. Come invece avrebbero dovuto, se è vero che Chruscev, che col XXII congresso del ’61 aveva pur messo fine allo stalinismo, quando parlava di arte dimostrò di essere in nulla diverso dal suo predecessore. E’ vero che mandava in giro per il mondo l’istrionesco Evgenij Evtuscenko, «il poeta famoso come un calciatore», a dire agli europei e agli americani che tante cose erano cambiate in Urss ma nello stesso tempo il focoso Chruscev sentenziava: «Finchè sarò presidente solo un’arte genuina sarà sostenuta e non un solo copeco sarà versato per quadri dipinti dalla coda di un asino». Confessando così che il comunismo non aveva paura delle armi ma aveva paura, chissà perché, dell’arte. Segnale che, per quell’ideologia, sarebbe finita male.