Finita la fase epica, eroica e retorica della Resistenza e conclusasi anche quella dissacrante e revisionista, potremmo finalmente sperare che possa dirsi arrivata la fase della storia che è invecchiata e che dunque ha, se non spento, sospito le passioni e può perciò dirsi capace di raccontarsi, anzi di tornare a raccontarsi (con una letteratura datata) non tanto per tesi precostituite ma con le parole dell’anima ovvero con le pagine della narrativa che è l’unica in grado di descrivere la profondità delle impronte lasciate dal dolore dei fatti. Non rimane che rallegrarsi che sia arrivato il momento di vedere invecchiato il 25 aprile, perché troppi errori hanno indotto una sua eccessiva attualità. Penso a mio padre che soffriva delle celebrazioni partigiane e del silenzio, quasi fossero stati una vergogna, sulla sorte di coloro che patirono nei lager in virtù della scelta di non collaborare con il nazifascismo. E ricordava i giorni nei quali per loro la guerra non era ancora finita e anzi durò per altri anni ancora mentre nelle nostre città tanti partigiani dell’ultima ora si autocelebravano come eroi. Dovremmo limitarci ad accettare che l’epilogo di quella tragedia ci consentì di poter conquistare una libertà che è patrimonio di tutti, anche degli sconfitti. Anche di quegli italiani che piangono i loro cari, i quali si trovarono a combattere nella parte sbagliata. Arriverà anche per loro la pace nei cuori, che è quella impassibilità che procura l’oblìo. Ma va anche detto che la guerra con cui si trova a combattere il cuore è pur sempre un buon motivo per avere voglia di leggere. E di scrivere. E di vivere.