‘Na tazzulella, ma è cambiato il caffè. Saprete tutto dell’apertura di Starbucks a Milano, nel concept con torrefazione in Cordusio. E avrete letto soddisfazione e critiche feroci. Non che la più grande azienda del mondo abbia fatto il suo più grande investimento in Europa a Milano, con la mini catena gestita da Percassi, centinaia di assunzioni e formazione, ma l’attentato di lesa maestà al caffè espresso italiano. Che detto fra noi, tranne poche eccezioni, non si può bere se non per una masochistica botta acida dall’alba al tramonto. Colpa della Robusta, perché la nuda Arabica in purezza non basta. Viene dal’Etiopia ed è coltivata soprattutto in Centro merica. Nel nostro provincialismo beato crediamo ancora che il nostro caffè espresso sia il migliore del mondo. Lo era negli anni ‘50 e ‘60, ma da qualche decennio appartiene alla preistoria. Il caffè, la sua coltivazione e lavorazione, la torrefazione e le tecniche di preparazione al banco, sono una cultura veloce e affascinante che chiunque può affrontare con un corso amichevole al Taglio di via Vigevano, l’unico coffee shop milanese riconosciuto nel mondo: miscele e arabica in purezza, libri, competenza, l’università di un nuovo gusto. Starbucks ha conquistato il mercato con il suo format e la toscana Marzocco, dove hanno inventato dagli anni ‘30 tutte innovazioni delle macchine da caffè (sono stati partner fino qualche anno fa ma collaborano sempre). Starbucks ci può far scoprire il buono del nuovo, un’idea più moderna di vivere un Caffè (in fondo dei letterari 4.0), ci aiuta a fare confronti con la migliore  tradizione. Mi manca invece il profumo intenso e acido della tostatura che usciva dalle torrefazioni artigianali sulla strada, come una sferzata di gusto.