Soffre Anita. Soffre Anita che nel 1907 spinge la carrozzella di sua madre in una Venezia che ormai non esiste più. Una Venezia di pescatori, di povera gente. Non sfavillante con le sue calli umide e scure, con il sole che si alza nel cielo ma senza rassicurare chi alla Giudecca passa la sua vita.

Soffre Anita per una madre anaffettiva che presto morirà.

Soffre Anita perché, è vero, si impara la vita però non si impara che cos’è l’amore, un luogo in cui «il necessario non era mai abbastanza».

Soffre Anita perché il padre non regge al lutto, non regge e non lo elabora. Lui, quel macellaio così apparentemente bravo, si tuffa nel vino, fino a sprofondare in un tragico abisso che costringe Anita a crescere crescere crescere. Troppo in fretta, e però ostinatamene, con durezza, attraverso mille avventure. Perché, come amava dire Italo Svevo, la vita non è né bella né brutta, ma originale.

E tanto altro ancora ci offre questo romanzo di Esther Diana (Vite che tornano, edizioni Sampognaro&pupi, 10 euro). Un romanzo duro, aspro, senza concessioni alla retorica. Con una trovata letteraria: se i gatti, che hanno, come si dice, nove vite, le raccontassero che cosa succederebbe? In questo caso, Diana fa parlare i gatti con voce franca, affabulatoria, perentoria. La saga ha un sapore francese (anche se i luoghi non sono parigini o marsigliesi), un sapore, e lo scriviamo senza timore di esagerare, alla Zola. Una pittura dai colori cupi che pure lascia spazio a un barlume di speranza.

Uno stile secco. Essenziale. Chirurgico (e non c’entra il fatto che la scrittrice sia stata figura di primo piano del Centro di documentazione per la Storia dell’assistenza e della sanità fiorentina…). Scarnificato. Che vuole affondare la penna nel cuore del lettore. E se la parte “forte” del libro riguarda senza dubbio i personaggi (che ci siano riferimenti biografici veri celati dalla finzione letteraria mi pare una certezza), bisogna annotare, al di là della trama inutile da svelare data la concatenazione degli eventi, che la narrazione scorre come un fiume in piena, privo di ostacoli.

Un romanzo storico? Forse. Ma, più che altro, una saga familiare (che da Venezia si sviluppa a Firenze), oggi genere assai in voga, ma che pochi praticano con correttezza. E fra questi pochi c’è Esther Diana.