“Una materia terribile e magnifica che mi fa un po’ paura”. La confessione è di Georges Simenon. L’immortale. Perché è scrittore supremo (sul suo carattere abbiamo qualche dubbio, ma non è questo che importa). Perché ha scritto moltissimo, quasi mai fallendo il suo obiettivo. Obiettivo, semplifico volutamente, chiaro e semplice: tenere attaccato alla poltrona il lettore. E il discorso, anche qui mi si perdoni la banalità, non riguarda solo le avventure, celebrate all’inverosimile, del commissario Maigret. Anzi, verrebbe da dire che il miglior Simenon lo leggiamo nei romanzi che non riguardano il celeberrimo commissario. Si pensi solo alla Camera azzurra, dove il crescendo emotivo ti fulmina (o almeno a me è successo così).

E sono rimasto fulminato anche leggendo (sempre nelle eleganti edizioni AdelphiIl treno, storia di guerra e di amore, un amore fugace e intenso, un amore per Anna, donna misteriosa e sensuale che solo alla fine scopriremo chi è veramente. Sullo sfondo la Francia del 1940 invasa dai tedeschi che hanno iniziato, un anno prima, la loro guerra maledetta che incendierà il mondo sino all’agosto del 1945 e che vedrà trionfare le democrazie e l’Urss (che democrazia certo non era né sarà mai) a carissimo prezzo.

Il romanzo narra (ma la trama è semplice) della fuga da un paese delle Ardenne di Marcel e della sua famiglia (la moglie incinta e una figlia piccola di quattro anni). Scappano stipati in un treno che sembra un carro bestiame. A un certo punto, i vagoni di Marcel e della sua famiglia vengono staccati. Il protagonista, un uomo tranquillo, scialbo, affetto in gioventù da una grave malattia, rimane solo. E lì, su uno dei treni incontra Anna, vive con lei un’avventura dove l’eros la fa da padrone e dove tutto sembra sospeso. Marcel ritroverà la moglie (che ha partorito) e la bambina, lascerà Anna, e… E di più non vi racconto per non sciuparvi il finale (che, nel corso delle pagine, forse intuisci, forse no).

Ecco, una volta tanto mi sono immerso nella trama. Ve l’ho raccontata quasi tutta perché chi mi legge penserà a qualcosa di tragico, come nelle parole dello scrittore riportate all’inizio di queste righe. E invece no.

Certo, c’è la guerra.

Certo, c’è la perdita della famiglia.

Certo, ci sono descrizioni crude.

Eppure, il tutto pare sospeso nel tempo, nell’aria. Resti davvero incollato a questo romanzo breve per il contesto. Le scene di sesso furtivo nei treni. La vista del mare. Il sentimento (quello sì irrequieto) che l’avventura con Anna del “normale”, anche troppo, Marcel prima o poi dovrà concludersi. Sottolineo il verbo “dovrà”, perché questa è la sensazione che si prova subito. Eppure, la storia ti avvolge proprio perché Anna non è solo bella, ma perché, nel suo segreto mostrarsi, è una donna molto, molto affascinante.

Ha ragione Giorgio Montefoschi, scrittore italiano che non ha bisogno di presentazioni e che io leggo sempre più che volentieri, quando scrive: “Grande romanzo, Il treno: per la capacità del suo autore di concentrare in meno di centocinquanta pagine l’affresco storico e la vicenda privata per la straordinaria efficacia dei dialoghi… per la sapienza con la quale (bastano talvolta pochi tocchi: un corpo nudo sotto il vestito, un paio di mutandine stese al sole) l’immaginazione sa nutrire l’erotismo”. Parole perfette, parole che riassumono al meglio l’essenza di questo romanzo (da cui fu tratto un film famoso, Noi due senza domani, con Trintignant e Romy Schneider). Bellissimo il finale della storia e la spiegazione che il protagonista dà della stessa.

Insomma, un grazie a Adelphi che rimise sui banchi delle librerie nel 2020 queste pagine. Un grazie allo scrittore (1903-1989). Un grazie a chi ha pensato la copertina. E un grazie a voi se vorrete seguire questo mio consiglio di lettura.