Roma sempre e ovunque. Struggenti frammenti di memoria. Generazioni a confronto. Le strade. Le piazze. Le vie. I quartieri. La dolce malinconia di quel che è stato. I dialoghi serrati, oppure distratti. O, ancora, inesistenti: pura finzione per nascondere l’incomunicabilità. Gli odori. I sapori. Il mare di Anzio. La campagna.

Ma sì, rileggiamo La casa del padre, Premio Strega 1994, di Giorgio Montefoschi, classe 1946, erede, a detta dei più (e noi siamo d’accordo) di Alberto Moravia. Un romanzo borghese perché da sempre Montefoschi indaga vizi e virtù della borghesia, specie della borghesia romana.

Il romanzo, più volte ristampato visto l’enorme successo, si divide in tre parti più un bellissimo epilogo. Non si rivela il tempo della narrazione, in che anni si svolgono le vicende. Ma è ragionevole supporre che l’arco temporale vada da metà degli anni Cinquanta ai primi anni Ottanta. L’epoca delle grandi trasformazioni sociali ed economiche, che, però, nel romanzo solo si intuiscono. I ritmi di quegli anni, tra i quartieri borghesi di Prati e Salario, tra via Tacito e via Adelaide Ristori, tra Parioli e il mare delle dune, della costa laziale, delle spiagge di sabbia e del promontorio del Circeo. Ma chi non coglie il sapiente dosaggio tra silenzi anche lunghi e amplificati dalla solitudine dei protagonisti, non può apprezzare appieno la bellezza di queste pagine.

Già, i protagonisti. Tanti, tantissimi. Mario Bellelli (nonno); la mamma Matilde; Pietro (il carattere più delineato); il figlio di Pietro che si chiama Mario come il nonno; Carla, la moglie di Pietro e madre di Mario; la cugina di Carla (e primo amore di Pietro) Livia, della famiglia Boligher; i Silvera. E tanti altri.

Eppure, lo ripetiamo: Roma è la vera protagonista. Con i suoi odori, il suo vento, il suo cielo, le improvvise raffiche di pioggia. Una Roma che tutto vede e tutto ascolta. Che viene esaltata dalle case ove si intrecciano le vite dei protagonisti. Con le loro paure, le loro speranze, ma soprattutto con le loro, più o meno accentuate, solitudini. Niente di irreparabile, sia chiaro. Però tutto racchiuso nel cuore, con consapevole certezza che la vita non è né bella né brutta, ma originale. Perché, direte, non ci parli della trama? Perché, rispondo, sarebbe come raccontare le vite di altri. Vite vissute tra dubbi e tradimenti. Tra lacrime e risate. Com’è la vita. Come sono le strade di Roma. Sempre pronte ad accoglierti. Di più: a trattenerti. Lasciando un’impronta (ferita?) che forse non passerà mai. Che tu la racconti in prima persona (come fanno Pietro nella prima parte e Mario nella terza), sia che tu ti rivolga al lettore senza usare l’io narrante.

L’importante è vivere attraverso la letteratura. Meglio: capire la vita. E Montefoschi lo fa da grande scrittore qual è.