Il dolore della coscienza? Può durare una vita intera. Tenetevi bene a mente questa assoluta verità. Oppure (prendo a prestito Pessoa): “La mia patria è dove non sono”. Ancora: quando comincia la nostalgia? (la lunga citazione serve a illuminare il contesto narrativo del romanzo che voglio, fortissimamente voglio, leggiate): “Ci sono diversi stadi. Il primo, quello in cui ti rifiuti di fare le valigie perché ti illudi che il ritorno sia domani. Tutto ti appare estraneo, indifferente, lontano. (…) Il secondo stadio è quando cominci a interessarti a quello che ti succede intorno, a quello che ti promettono i politici, a quello che non fanno (e allora ti senti già come a casa), a quello che gridano i muri, a quello che canta la gente. (…). Finalmente crollano le barriere politiche che impedivano il ritorno. Solo allora ti si apre davanti il terzo e ultimo stadio, ed è lì che comincia la smania lussuriosa e quasi assurda, la paura di perdere la benedetta identità, la coazione nel cuore e lo scampanellio nel cervello. E anche se sai benissimo che tutta l’operazione non sarà un’impresa memorabile né una solennità, il ritorno a casa diventa a poco a poco irrinunciabile”.

Chi parla è Javier, protagonista discreto e gentile del capolavoro di Mario Benedetti Impalcature. Il romanzo del ritorno, tradotto da Maria Nicola per Nottetempo (16 euro). Javier torna in Uruguay, dopo gli anni della dittatura (il bellissimo Paese sudamericano precipitò nell’abisso dell’orrore militaresco dal 1973 al 1985) e, con studiata lentezza, si riappropria della sua terra. Eppure, tanto è cambiato. Gli amici si ritrovano, ma nessuno parla di politica. I militari ci sono ancora, ma sembrano aver accettato la democrazia. La dolce mamma è finalmente lì, accanto al figlio prediletto (Javier ha anche due fratelli, non simpaticissimi, emigrati nel Nordamerica). E poi ecco Rocìo, antica compagna di lotte diventata la nuova ‘dolce metà’. Passionale, certo, ma ferita in modo indelebile dalle torture dei golpisti. Da Madrid, dove Javier ha scontato gli anni dell’esilio, arrivano lettere. Sono della moglie (ex?) Raquel e di Camila, la figlia spiritosa e colta (uno dei personaggi più riusciti di queste pagine) che Javier ha lasciato (sarà proprio così?) per tornare a casa.

A tutti queste istantanee di vita che fotografano il passato e il presente con la memoria come vera protagonista, fa da contraltare un senso di straniamento, quasi di smarrimento del protagonista. Uno smarrimento che non cede alla paura. Uno smarrimento che si tocca con mano. In tal senso, superbe sono le descrizioni dei luoghi che cambiano, di chi non c’è più, di chi è rimasto. Poi, ovvio, la riflessione narrativa di Benedetti (inutile dettare la sua biografia, è un gigante della letteratura che visse sulla propria pelle, in esilio, la feroce dittatura) è anche politica. E, in questo caso, l’album di famiglia è ricco di particolari. Con una sinistra decisa a combattere, eppure velleitaria, ingenua, molto colta al tempo stesso.

Sullo sfondo, l’Uruguay. Un Paese che amo molto (figuratevi: ci sono andato in viaggio di nozze!), un Paese particolare. Lo dice bene Javier, che di mestiere fa il giornalista con corrispondenze per un’agenzia spagnola: “Dell’America Latina interessavano solo i terremoti (Colombia), gli omicidi politici (Messico), le zattere di profughi (Cuba), i militari cattolici (Argentina), i guerriglieri maoisti (Perù), i cartelli del narcotraffico (Colombia), le avvisaglie di golpe (Venezuela), i deliri di Pinochet (Cile). Ma in Uruguay non sono terremoti né omicidi politici, nessuno scappa mai su una zattera (dove potrebbe andare?), nessuno si dedica attivamente alla guerriglia, circola relativamente poca droga…”.

E mi fermo qui. Con una massima da tenere sempre a mente: “Disse il vecchio Cervantes: ‘Oh, memoria, nemica mortale del riposo!”.

Ps. Benedetti è morto nel 2009. Leggete tutto di lui, ne vale la pena. Anche per la prosa: secca ed essenziale, alla Stendhal. E grazie ancora a Nottetempo per il coraggio editoriale (ce n’è bisogno di questi tempi).

Francesco Ghidetti