Secondo me, questo è un bel libro. Ho intervistato l’Autore. Ecco che cosa mi ha detto. Con la semplice serenità del ricordo.

Si alza la mattina presto. Fa colazione con caffè nero bollente. Lavora tutto il giorno. Torna a casa. Cena. Due chiacchiere con l’amata signora. Sparecchia. Mette a letto, padre premuroso, le bimbe. E, saranno le 23, si mette a scrivere. Magari si dimentica di andare a letto. Sono le sei di mattina, spunta il sole. Lo aspetta una nuova giornata. Il suo nome è Moretto, Lorenzo Moretto. Ha scritto un romanzo. Bello, bellissimo, stampato da Minimum Fax (a proposito: bravi): “Una volta ladro, sempre ladro”, memoria del padre. Un padre inquisito, accusato, messo in prigione, poi uscito dopo mesi di angoscia, di tribunali, di notte senza sonno, di amicizia con altri detenuti. Come migliaia di altri italiani finiti nelle patrie galere in quel biennio terribile – 1992-1994 – che va sotto il nome di Tangentopoli. E infine vittima di un male che non gli ha lasciato scampo. Ecco alcuni ingredienti per sviluppare un astio infinito verso i giudici, no?

No. Nessun astio, né odio – scandisce Moretto -. La libertà è fatta da un insieme di pesi e contrappesi. Non egualmente distribuiti. In quel momento di tanti anni fa la magistratura aveva un peso superiore. Normale, diciamo così, per l’allarme che suscitava il finanziamento illecito ai partiti. In quel caos il rischio di sbagliare era più alto. Può succedere. Ci sta. Certo, sul momento, te, figlio dell’imputato, la vivi male, malissimo, un incubo. Ma poi…”.

Ma poi?

Ma poi capisci che l’aspetto più bello è che tua madre e tuo padre si sono amati, nel momento più brutto della loro vita, come quando erano giovani. Che il dolore era non dico superato, ma affrontato con passione infinita. E allora, parlo per paradosso, pensi che in fondo, anche quella parte della tua vita è servita a capire”.

Lei scrive della quotidianità della sofferenza.

Dovevo trovare una sintesi efficace tra privato e pubblico. Non è solo la mia storia, insomma. Non è solo il mio dolore. Non è solo il mio incubo. Volevo che fosse la storia di tutti”.

Lei ha perdonato?

Figuriamoci. Non spetta a me perdonare. Né mi interessa. Non so nemmeno se sia il verbo giusto. Diciamo che la vicenda del padre e della mia famiglia mi ha insegnato il valore della mia gente, la gente friulana. Poche chiacchiere, testa bassa e pedalare”.

Il Friuli: terra ai margini.

Per certi versi, sì. Per altri versi, lo dico senza alcun orgoglio regional-patriottico, c’è che siamo unici. Come nel 1976. Terremoto e poche chiacchiere. Ci siamo messi a ricostruire. Con tenacia. Con passione. Viviamo a dieci chilometri da un confine. Siamo abituati al confronto. Sappiamo distinguere, ma soprattutto sappiamo fare il nostro dovere”.

Nel suo romanzo non c’è il dato politico. Lei scrive che i suoi votavano Democrazia cristiana. Ma Tangentopoli fu tutta politica…

E’ vero. La politica non c’è. O, se c’è, è solo accennata. La mia era una famiglia del ceto medio che preferiva la Dc, anche se non sempre e senza particolari slanci. Mio padre, la classica figura di quella generazione che veniva dalla campagna e che aveva tentato, riuscendovi, la scalata sociale”.

Il giovane Lorenzo va a Milano per il padre incarcerato, poi ci resta per lavoro. Odio e amore?

No, non la metterei così. Io vivo a Milano. La apprezzo. Ovvio: quando partivo la mattina da Monfalcone per andare a trovare mio padre in galera non era così bello. Odiavo Milano. Però poi è stata la grande città, la prima, dove sono andato a vivere, dove ho amato, dove ho avuto due bambine, dove ho cambiato mille lavori. A Milano ti guardano in faccia mentre cammini. In provincia, no. E io, dopo un iniziale titubanza, ho cominciato ad apprezzare molto questo aspetto”.

Si spieghi.

Ho vissuto l’anonimato che ti dà una metropoli come una liberazione. La vita di provincia mi piaceva. Ma l’essere solo mi ha dato molta energia, la forza di essere me stesso”.

La figura della mamma è solare. Donna sempre giovane.

A lei devo molto, ma in particolare la mia vocazione o passione che a dir si voglia letteraria. Mi disse: non sai scrivere. Occupati di matematica, non di letteratura. Bene, non le ho dato retta. Ho scritto questo romanzo e le ho portato il ‘prodotto’ finito, stampato. Lei felice. I suoi amici felici. All’inizio lo ha letto un po’ qua e un po’ là. Poi tutto insieme, a mia insaputa. Mi ha telefonato in un giorno della settimana in cui non mi chiama mai. E ha avuto parole dolcissime. Gioia pura”.

Nel romanzo l’io narrante cambia spesso lavoro.

Sì. Molto è legato alle vicende di mio padre. Poi anche a operazioni finanziarie che ora sono limpide, una volta invece mi ponevano, pur nella loro completa regolarità, problemi etici. Non sposavo la causa del mio datore di lavoro perché non ero d’accordo. Cercavo nuove sfide quando una certa narrazione professionale non mi convinceva più”.

Ma il lutto della morte del padre non è stato elaborato, dica la verità.

Impresa impossibile. Gli mancavano pochi mesi alla pensione. Non ha conosciuto le mie figlie, sarebbe stato un nonno perfetto. Era un uomo che faceva spogliatoio. Generoso. Voleva godersi, senza eccessi, la vita. Un uomo tenero”.

E gentile: fece ascoltare la lirica a un poliziotto.

Io lo racconto nel romanzo, ma è pura realtà. Un controllo: libretto e patente. Mio padre trovò un agente della stradale che gli chiese se poteva tenere la radio dell’auto accesa perché era appassionato di lirica. E lui ne fu contento. La sua generosità mai e poi mai potrà essere negata”.

Ma lei legge molto?

Moltissimo. Certo, come tutti gli scrittori non sempre il piacere equivale al dovere…”.

Una faticaccia il mestiere di narratore.

Un’impresa davvero forte. Lo dice il mio Cormac McCarthy”.

McCarthy, immortale narratore statunitense.