E come se non bastasse, oltre agli amici di tutti i giorni (che anno catastrofico), se ne vanno anche gli “amici pubblici”: da Proietti, a Sepúlveda alla mia concittadina Daria Nicolodi, a Maradona, a Sean Connery e via, tristemente elencando. Lo spazio narrativo della vita si restringe sempre più. Perché non muore solo una persona, ma tutto (è egoismo, lo so) quello che ha scandito, belli o brutti che sono stati, i ritmi della vita. La quale, piano piano, si accorcia e si diluisce in una ricerca costante e appassionata, ma molto malinconica, della memoria che può e deve legittimare il presente in modo più o meno convincente

In tal senso, per “elaborare il lutto”, vi suggerisco la lettura di un romanzo/non romanzo (forse una memoria) di quella fuoriclasse della letteratura che risponde al nome di Serrano, Marcela Serrano, cilena, tra le autrici latinoamericane più vendute al mondo (autrice di chicche come “Il tempo di Blanca” o “Noi che ci vogliamo così bene” o molto altro ancora). Bene, vi consiglio “Il mantello”, ricordo e riflessione sulla morte della sorella Margarita. “Si chiamava Margarita Marìa Macarena. Quante emme sulle spalle. Era nata il 15 giugno 1950, e metà dell’anno che divideva a metà il secolo scorso. La terza di cinque sorelle, di nuovo in mezzo. Tutto a metà. Era dei gemelli”. Un inizio bellissimo, giocato, pur nel dolore della perdita, sul filo sottile dell’ironia, come Marcela è sempre stata nelle sue opere.

Il volume, edito da Feltrinelli, è un ragionamento molto letterario sul senso della morte. O meglio sulla morte che trascina con sé tanta malattia, tanta fisicità. Perché quando muore una persona amata (se poi è una sorella ancora peggio) qualcosa si spezza anche nel tuo corpo, qualcosa di doloroso ti avviluppa, qualcosa di duro ti ferisce. Il ricordo si fa di nuovo nitido e ti costringe a scavare, scavare, scavare nei tuoi sentimenti. Ci si difende in vari modi. Nel caso di Marcela (e anche io la penso così o, meglio, pratico così l’elaborazione del lutto) le medicine sono varie. Le principali: il silenzio (che non vuol dire isolamento), il sonno; la lettura. Più tardi, ma solo più tardi, tornerà quella che per chi ama la letteratura sopra ogni cosa (e, beninteso, dopo gli amici e gli affetti) tornerà anche la scrittura. Ma con calma.

Potrei continuare per ore a scrivere di questo libro, delle sue fasi, delle sue pause, dei suoi dolori e della sue speranze. Tutti sentimenti conditi da attente citazioni e letture. Una, su tutte (a pagina 124): “Ha ragione Faulkner quando dice che il passato non muore mai. E che non è nemmeno passato”.

La scrittura di Marcela è leggera, chiara, lineare. Commossa e commovente pur nella sua semplicità (semplicità non vuol dire banalità…). Ancora mi aiutano le citazioni: “A tutt’oggi sono convinta che la letteratura non vada studiata, e che l’unica scuola possibile sia la lettura”. Oppure i ricordi dell’esilio (Marcela, come altri 200mila cileni, dovette scappare da Pinochet dopo il colpo di Stato dell’11 settembre 1973). E ancora le allegre ‘scampagnate’ oltreoceano, a Parigi, a Roma, a Firenze prima della catastrofe pinochettista: “Insieme (con la sorella Margarita) arrivammo a Roma in treno da Firenze, e i miei occhi si posarono per la prima volta sulla città eterna, tutta rossa e ocra, senza immaginare che di lì a poco l’avrei fatta mia, e nel giro di due anni ci sarei ritornata, dolorante e sconfitta, a cercare rifugio”. Era, dunque, il 1971. Con la dolce sorella (combattiva, volitiva) la nostra autrice era andata in Europa per studiare a Parigi, salvo sperperare con allegra giovinezza, tutto il denaro e essere costrette a fare l’autostop. Un’ultima citazione: “Se, come sostiene Rilke, la patria è l’infanzia, lei era la mia compatriota”. Il che, a mo’ di finalino, mi fa venire in mente che la nostra patria, chissà, è il mondo intero. E che, giuro!, Marcela è per me una grandissima e simpaticissima compatriota.

Ma voi lasciate stare queste note e leggete il libro. Fidatevi di un anziano recensore.

Francesco Ghidetti