La memoria legittima il presente? E’ lecito sovrapporre memoria e nostalgia? Meglio: è corretto? La memoria è solo un esercizio di stile un po’ depressivo o serve a mettere a fuoco meglio le cosiddette “problematiche” di ogni giorno?

No, tranquilli, non voglio scrivere un trattato di filosofia spicciola, ma introdurvi alla lettura di Quella vecchia storia, ultima fatica letteraria di Leonardo Gori (per le edizioni Tea).

Il protagonista è Bruno Arcieri, ormai eroe conclamato di tante avventure “gialle”. Carabiniere, soldato, partigiano, agente segreto, Bruno attraversa da anni la storia dell’Italia del Novecento. Ma stavolta è diverso. Poi vi spiego. Intanto, racconto, per sommi capi, la trama del libro.

Bruno Arcieri (finalmente) è a Firenze. Vorrebbe stare tranquillo. Con la sua Marie (Elena Contini – tipico esempio del “primo amore che non si scorda mai” – sembra lontana nel tempo) e godersi, dalla casa di via Ricasoli, i meravigliosi tetti rossi della città, della tanto agognata sua città. Non ne può più di trame e intrighi, di guardie e ladri, di buoni e cattivi. Per questo, in via de’ Bardi, a cento metri da Ponte Vecchio, ha messo su un ristorante: Gli Spostati, nome che ben si adatta alla fauna umana che ci lavora (siamo nell’aprile del 1970). La trattoria ha un cuoco di quelli che definire sopraffini è poco. Si chiama Max.

Il problema, però, è che qualcuno è entrato nei locali e ha distrutto (ma sarà proprio così?) la cucina. E, problema dei problemi, è che di mezzo c’è anche un morto. Ingombrante, non solo per la stazza. Dopo attenta verifica si scopre che il tipo sotto il frigorifero è un vecchio arnese fascista della repubblica di Salò. Ma perché è stato ammazzato? E, soprattutto, perché contemporaneamente è scomparso Max? Chi è veramente Max? Comincia così la nuova avventura di Bruno. Con lui, l’enigmatico ex (ex?) agente dei servizi segreti Daniele. Che pare in fin di vita, ma che ha mille risorse. C’è poi un’eccentrica baronessa e tanti altri personaggi. Sino a un finale spiazzante e aperto. Eppure, e non prendetemi per matto, le pagine di Gori non sono da leggere per la trama (sia pur ben congegnata e avvincente) . La trama è una, come dire, una scusa. A pagina 245 c’è tutta la spiegazione di questa mia all’apparenza azzardata affermazione. Eccola: “Il passato non vuole mollare”. Insomma, Gori salta il romanzo di genere per approdare alla letteratura pura. Alla bella letteratura. L’Autore riflette, analizza, scava. Il terreno su cui si impegna con la sua penna è l’anima di ognuno di noi. Vero, c’è il delitto; vero: c’è l’indagine; vero: ci sono i buoni e i cattivi. Ma soprattutto c’è il tempo che passa. Quindi di indagine si tratta, non vi è dubbio. Ma di un’indagine esistenziale. Dolorosa e dolcemente malinconica al tempo stesso. Cui nessuno può sottrarsi. Romanzo da leggere con piacevole leggerezza eppur ponendosi domande che, molto spesso, ci facciamo solo nell’autunno della vita. E in autunno si sa come stanno sugli alberi le foglie, no?