Non mi è mai successo per la morte di un personaggio pubblico. Non ho mai pianto per nomi famosi, anche se a essi affezionato. Il dolore l’ho sempre riservato (potente, talvolta difficilmente controllabile) per amici o parenti. Solo una volta, per ora, ho sentito angoscia forte, di quella vera. E’ successo circa dieci mesi fa, quando se ne è andato Luis Sepúlveda. Non perché lo ritenessi una divinità o il più grande scrittore del mondo, ma perché era Luis, un amico, quello che in tempi ormai passati si sarebbe definito un compagno di viaggio. Attendere un suo libro, articolo, saggio, dichiarazione alla tv era bello perché poi sapevi che non ti avrebbe deluso. Invece, in quel 26 aprile del 2020, Lucho ci lasciò. Il morbo malefico che sta sconvolgendo le nostre vite da oltre un anno lo aveva colpito.

Avevo conosciuto Lucho solo superficialmente. Una volta, credo nel 2018, venne a Bologna. Mi appostai in posizione strategica e lo agguantai, letteralmente. Lui, paziente come pochi, si fece abbracciare, mi scrisse una dedica su un libro, chiacchierò amabilmente con me. Di politica (e mi parve assai disilluso) e di letteratura (il viso gli si illuminava). Poi, mi salutò e tenne, in una piazza Santo Stefano gremitissima (il salotto elegante dell’elegante Bologna) la sua ‘lectio magistralis’ (mi sentisse si arrabbierebbe). Mi colpì la semplicità affabulatoria. Disse che lui era di sinistra e che non gli importava niente se ad ascoltarlo non c’era gente non di sinistra. Un’atmosfera rilassata, dove impartì, con genuina semplicità, fondamentali lezioni di letteratura. Insomma, l’avrete capito, era un maestro della narrazione. Ed è questo il senso che colgo leggendo uno scrittore a lui molto vicino (e amico) come Bruno Arpaia che manda in libreria, per Guanda (editore anche di Lucho) le pagine (belle) intitolate Luis Sepúlveda. Il ribelle, il sognatore. Arpaia non ha bisogno di presentazioni, è autore fra i più noti delle nostre patrie lettere. Ha scritto di tutto e per tutti: romanziere, giornalista, consulente editoriale, traduttore. Un orgoglio italiano che frequenta poco le lettere italiane (e forse in questo sta la sua forza…). Un autore capace di tirar fuori, faccio solo un esempio, capolavori – non esagero – come Tempo perso. Un autore – non sto qui a far la biografia – cui dobbiamo, noi comuni lettori, tanto: ci ha fatto conoscere moltissimo della letteratura ispanoamericana. Poi, è altrettanto doveroso avvertire il lettore: il libro non è una biografia critica di Lucho, ma un affresco, una memoria che frena le lacrime, una guida letteraria dell’autore che ci ha accompagnato sin dalla nostra (beata) gioventù.

La riflessione di Arpaia si muove sul filo della memoria tanto che si può parlare di un libro “per” la letteratura più che “di” letteratura. Insomma, Arpaia non ha preteso di scrivere una biografia, ma un utile orientamento per chi si cimenterà nell’analisi critica dell’opera di Lucho.

Direi che gli spunti che ci offre il libro sono infiniti. Vediamo di sintetizzarli.

La memoria. Basta un titolo: L’ombra di quel che eravamo, tra le pagine più belle di Lucho. “Insomma, passava il tempo, l’età incalzava, e Luis – scrive Arpaia – sembrava sempre più impegnato a frugare nella memoria in una resa dei conti con il suo passato, che rivendicava senza esitazioni, ma che non esitava a passare sotto la lente della critica o dell’ironia per quanto conteneva di ingenuo o di sbagliato”. In tal senso è fondamentale ciò che Lucho e la dolcissima moglie Carmen decidono: non più sei mesi in Cile e sei mesi a Gijòn. Il suo Cile di gioventù, il suo Cile in lotta contro Pinochet era ormai un paese diverso e la memoria non bastava più. Memoria belle e drammatica al tempo stesso. Ormai la Spagna era la patria.

Lo stile. Lucho scriveva per farsi leggere. Nessun approccio barocco, nessuno sperimentalismo. Semplice ed essenziale.

La politica. Grande passione della sua vita, certo. Grande sofferenza, ovvio. Ma soprattutto supremo strumento per cambiare il presente. Ma che, come sono ridotte le sinistre nel mondo oggi, lascia in Lucho un sentimento misto di irritazione e delusione.

Il successo. Arriva, ne gusti il sapore, ma, sia chiaro, se ti piace stare in compagnia degli amici e bere del buon rosso, vai in trattoria e rifuggi dallo ‘star system’. Così faceva Lucho.

La Gabbianella. Il romanzo che più ha commosso e aiutato per lo meno due generazioni. Io ho un ricordo tutto mio che, immagino, sia condivisibile con molte mamme e molti babbi: mio figlio Niccolò, ora ultramaggiorenne e accanito studioso di politica internazionale, era fanciullo vivace, vivacissimo, quasi insonne. Mai smetterò di ringraziare Luis per la Gabbianella: mio figlio continuava a stare sveglio, sveglissimo, a ascoltava (sereno e silente) le mie parole o guardava (sereno e silente) il cartone animato.

La letteratura. Spesso vi dico che è l’unica che può salvarci. Leggendo questo libro di Arpaia me ne convinco sempre più. Perché è “la più dolce delle menzogne” (leggete le pagine 78-79 e 115 e capirete meglio).

Insomma, leggete questo libro. Con il rimpianto di non aver conosciuto come si deve il grande Lucho. Il che ci fa invidiare Bruno. Beato te, diciamo…

Ps Notevolissimo il capitolo sul racconto. Di più non dico per non sciuparvi la sorpresa.