La perdita. Meglio: la non conquista.

La paura, le paure. Quelle vere e quelle che ti scavano dentro senza che tu le possa uccidere.

La solitudine.

Il passato, il presente, il futuro. La perdita, le perdite.

I misteri da svelare.

La realtà vera e quella immaginata.

La ricerca di un perché nelle cose. La ricerca matta e disperatissima, giorno dopo giorno, di un motivo valido per vivere.

L’amore. L’odio.

E poi tutto il resto. Tutto e tanto. Tutto e tanto in questo romanzo di Claudia Marin. Bello. Perché è una scrittrice vera. Perché ci racconta (con un finale apertissimo) una storia di donne. Diverse tra loro. Nonna, figlia, nipote.

Nonna artista. Egocentrica, distratta ma forse non troppo. Dura. All’apparenza serena come chi vive d’arte. Eppure sfuggente. Eterea, verrebbe da dire. Lei si chiama Celeste, non a caso secondo me.

La figlia (il contrario della mamma) invece si chiama Costanza. E’ un medico, soffre di crisi di panico, ha paura, diventa madre, è la protagonista. Si ammala. Guarisce (ma davvero guarisce?). E’ il simbolo dell’inadeguatezza. Un’inadeguatezza che avvolge. Perché, sia chiaro, tutti siamo soli e inadeguati.

La figlia di Costanza, poi. Che è anche, ovvio, la nipote di Celeste. Si chiama Sofia, impasto imperfetto (molto imperfetto) di madre e nonna. Gioca, si dispera, cresce, si ammala anche lei. Mali di gioventù, certo. Ma nessuno è mai stato veramente felice in gioventù? E’ davvero un’età così magnifica? Così bella?

E poi ci sono le amiche. L’amica della nonna. L’amica della mamma. L’amica della nipote. Tutte donne, con le loro paure e le loro speranze. Con la loro tenacia declinata diversamente, con forti sfumature, con colori forti e pastello insieme. Il rosso e il nero. Il giallo e il verde. Ma, soprattutto, il bianco, il nero e il grigio. Tre tonalità che sono lo scheletro del romanzo della Marin.

Direte: solo donne? Forse (forse), sì. Perché gli uomini o non ci sono (e qualcuno vuol capire dove stanno e dove sono finiti) o, se ci sono, giocano un ruolo inutile. Irritanti nella loro sicumera. Basti pensare a Edoardo che “ostentava la sua proverbiale calma”. Per dire che non conta, che è marginale, che è povero dentro (almeno a me così è sembrato). Ci sono tante situazioni (imperdibile quella che narra degli anni di Celeste dalle suore), pochi luoghi (a parte due fugaci accenni a Roma). C’è il sole e il tempo cattivo. C’è la casa dove la bambina Costanza giocava da sola in mezzo (paradosso letterario perfettamente riuscito) a tanta gente, senza la mamma. C’è l’angolo dove appoggiava le bambole e dove, alla fine, svuota la borsa in preda al panico.

Un romanzo che emoziona. Un romanzo di solitudini e di mancanze. Perché il vuoto, nella vita, va riempito, certo. Il problema è che ne riempi uno e se ne apre un altro. Troppi spazi aperti. Troppi lutti da elaborare. Troppo o, chissà, troppo poco. Serve dunque alleviare il dolore. Magari con un’amica. Magari con una risata. Magari con un biglietto antico, scoperto in un cappotto. Chissà se quello giusto e disvelatore (il biglietto, non il cappotto).

Insomma, leggete Figlie uniche di Claudia Marin stampato da Iride (cui vanno i miei più sinceri complimenti per l’accuratezza editoriale).

Da soli, mi raccomando.