MARCO TARCHI, scienziato della politica nella facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri di Firenze, di populismi ne sa. È suo, tra l’altro, il saggio, pubblicato lo scorso anno per i tipi del Mulino, intitolato appunto Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo. Dopo la tempesta francese e i successi (quantomeno mediatici) del leader della Lega Matteo Salvini, ascoltiamo la sua analisi in chiave europea.
Professore, boom di Marine Le Pen. Rischio contagio in Italia?
«Lo escluderei, almeno per il momento. Le cose potrebbero cambiare solo se, una volta conquistata qualche regione, il Front National riuscisse a smentire il pregiudizio diffuso sull’incapacità dei populisti a governare in modo efficiente. Allora, sì, potrebbe diventare un modello».
Il populismo da che cosa trae la sua linfa o, meglio, la sua forza?
«Dagli errori e dalle insufficienze dei suoi avversari nell’affrontare problemi cruciali come l’immigrazione di massa, le ricadute negative della globalizzazione in alcuni ambiti sociali, l’insicurezza di fronte a precarietà lavorativa e criminalità, nonché lo strapotere dei centri di potere finanziario, che appaiono ormai a molti in grado di condizionare e indirizzare le azioni della classe politica».
Perché un modello di semplificazione del linguaggio della politica – una volta tempio della complessità – può arrivare a una banalizzazione dei problemi e conquistare tanti consensi?
«Per la ripulsa che molti elettori provano nei confronti delle ipocrisie e della vuotezza retorica che sempre più ha contraddistinto il linguaggio dei politici di professione».
Il modello populista, da lei studiato in più occasioni, è un paradigma sufficiente per capire quel che di più profondo si muove nella società europea?
«Sufficiente no, ma contribuisce a mettere in evidenza lo scollamento esistente tra ampi settori della società e coloro che dovrebbero rappresentarne e tutelarne le istanze. I populisti propongono il ritorno a forme di democrazia diretta e controllo dei governanti che incontrano un largo favore nell’opinione pubblica».
Come classificherebbe i populismi oggi in Europa? Solo di sinistra o di destra o sfuggono alle categorie tradizionali?
«Nel fondo, esprimono tutti un sostanziale superamento di queste categorie, a cui contrappongono il conflitto tra ‘chi sta in alto’, preoccupato innanzitutto di tutelare i privilegi legati alla posizione che occupa, e ‘chi sta in basso’, costretto a subire il disinteresse o le prepotenze dei potenti. La mentalità che li anima può però avere sfumature più conservatrici o progressiste».
Chi vota i populismi? È un fenomeno legato soprattutto alla crisi di fiducia nelle élite di tutti i generi?
«In prevalenza sì, anche se influiscono, nel clima di smarrimento legato alla crescita delle società multietniche, preoccupazioni legate alla paura di perdere tradizioni, modelli culturali, stili di vita consolidati da tempo, cioè i tratti caratteristici di un’identità».
Può Salvini aspirare al governo del Paese o da solo non basta?
«Non solo non basta, ma il suo problema è che una parte degli elettori che attrae è tutt’altro che entusiasta di un’alleanza con Berlusconi. Il motivo? Rappresenta una politica giudicata vecchia e fallimentare. Forse gli converrebbe insistere su una linea di estraneità alla logica di confronto sinistra/destra. Alla lunga, potrebbe pagare».