Dunque: Marco Vichi è uno degli scrittori più venduti e più conosciuti del nostro Paese. Se lo definisci ‘giallista’ lui si arrabbia. Con una motivazione. Semplice semplice: basta ansie classificatorie, un romanzo è bello o brutto, ti appassiona o ti annoia, insomma ti piace o non ti piace. Inoltre, aggiungo, dire che Vichi scrive gialli è riduttivo.
Breve pistolotto iniziale per comunicarvi che Bordelli, il commissario Franco Bordelli è tornato.  Se andate in libreria (e vi consiglio di farlo) troverete in bella vista “L’anno dei misteri” (si riferisce al 1969, un secolo fa), edito da Guanda, il che è già una garanzia di qualità, al prezzo di 19 euro.

Il bello di questo romanzo è che l’intreccio narrativo si svolge su diversi piani, tanto che la trama, non sembri un paradosso, risulta di secondaria importanza rispetto al contesto, al sapore e all’odore di quegli anni, alla caratterizzazione dei protagonisti, pennellati con mano sicura da Vichi. I fatti sono abbastanza semplici. Bordelli e i suoi collaboratori, tra cui un inarrivabile Piras, fantastico esemplare di… razza sarda, indagano su un maniaco sessuale che uccide, ogni nove mesi, e dopo averle violentate, alcune prostitute. Non solo. A questi assassini efferati si aggiunge l’assassinio di una bellissima e giovanissima ragazza, Diletta, in una casa di piazza Sant’Ambrogio a Firenze. Una ragazza all’apparenza solare, in realtà custode non limpida di comportamenti poco ortodossi. Il tutto in una Firenze normalissima all’apparenza, in realtà percorsa da misteri e segreti più o meno terribili che intrecciano le loro vie buie con i sentieri della storia. E quindi assistiamo al sacrificio di Jan Palach, al mondo diviso in blocchi, all’avvio di quella che sarà chiamata strategia della tensione

Anche in quest’ultima fatica di Vichi, Firenze la fa da padrona, domina la scena. E quindi un fiorentino o un amante del capoluogo toscano si troverà perfettamente a suo agio nei luoghi teatro del romanzo: da viale dei Mille a piazza Beccaria a via Gioberti a viale Gramsci a Borgo San Frediano alle Cure e via dicendo. Una topografia letteraria molto ben costruita. Non dimenticando, questa annotazione non po’ fare a meno di essere condizionata da un certo orgoglio di testata, che si cita assai spesso “La Nazione”, financo “Nazione sera”, quel formidabile foglio del tardo pomeriggio che ha allevato intere generazioni di giornalisti: una palestra dell’informazione, come si diceva quando non c’era la Rete e gli assordanti e invadenti canali all news.

Gli elementi narrativi (il libro consta di 490 pagine che si leggono in poco tempo perché davvero ti inchiodano alla poltrona, non è retorica) sono comunque particolarmente efficaci nella descrizione dei personaggi. Ovviamente, spicca il commissario Bordelli, cui manca poco alla pensione (lui è nato nel 1910) con le sue angosce e le sue speranze. E qui va fatto un ragionamento più ampio. Bordelli non è un uomo qualunque. Ha combattuto il mostro nazifascista, è stato partigiano, è entrato nell’allora Pubblica Sicurezza. Discreto bevitore, solo vino rosso e vin santo però, ghiotto come pochi a parte le olive, è guidato da un forte senso di giustizia che, qualche volta e con molti sensi di colpa, lo porta a non seguire pedissequamente le regole della polizia. Un irregolare che, però, rifugge da atteggiamenti violenti e preferisce “punire” o “assolvere” secondo una sua etica personale (comune a moltissimi di noi, diciamo la verità). Bordelli, ormai fidanzato con la bella e sensualissima Eleonora, indaga e indaga alla grande, attorniato da uno stuolo di collaboratori che gli vogliono un gran bene. Certo, la mela marcia c’è, ma non farà una bella fine. Si salverà invece un suo amico, entrato in possesso di documenti scottanti che poi… no, non posso rivelare di più se no i pochissimi lettori che ho mi rincorrono.

Non manca la colonna sonora. Resa così bene da Vichi che mi sono sorpreso a canticchiarla in continuazione. Mi riferisco a “zum sum zum”, “sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa”, mitica hit di Mina che certamente, nei lettori diversamente giovani, susciterà un dolce o aspro ricordo di quando imperava una beata gioventù e i cieli ci parevano più blu.

E proprio sul tema della memoria (lei, non dimenticatelo mai, legittima il presente) che Vichi dà l’ennesima prova della sua bravura. Sia chiaro: nostalgia e rimpianto, ma soprattutto fotografia di anni passati che mai più torneranno. Peraltro, a mo’ di avvertenza, il lettore non pensi che Vichi, classe 1957, sia scrittore nostalgico. Tutt’altro. Per questo motivo, forse, è così bravo a descrivere il nostro recente passato.

Infine, ma non in ultima posizione, un’avvertenza: dopo questo romanzo di Vichi, viene voglia di leggere sempre di più. Basti pensare a quanto lo scrittore citi spesso i classici. Quando Vichi dice di non leggere gialli non lo fa per snobismo o civetteria. Preferisce James, Hemingway, De Amicis, Fogazzaro e via dicendo. Ma, soprattutto l’immortale Alba de Céspedes, vero mito per lui e quindi anche per Bordelli.

Buona lettura