Mentre (notizione) la Ferilli va con i grilli (pora stellina, diceva la nonna di un mio amico di Roma), il nervosismo cresce a dismisura per il voto del 5 giugno. Voto amministrativo, in teoria. Squisitamente politico, in pratica. E cresce perché la posta in gioco, come s’usa dire, è forte. Non solo per Matteo Renzi. In caso di sconfitta – o “non vittoria” – per il presidente del Consiglio sarebbero guai, ma non tali, credo, da indurlo a decisioni forti. Renzi punta a ottobre, al referendum. E’ lì che si vedrà davvero quanto l’ex sindaco di Firenze ha convinto gli italiani. Il test, dicevo, è decisivo ben oltre le sorti della città (non dimentichiamoci mai l’antico motto che “la città rende più liberi” e non perdiamo di vista il fatto che il 54% della popolazione mondiale vive in realtà urbane). Chi ha più da perdere è la destra, disunita e frammentata quant’altri mai. E la ‘sinistra-sinistra’ (quella di Sel e Prc e Fassina, per capirsi) rischia grosso, l’estinzione è in agguato.
Per la destra la strada a Roma è assai in salita. Si presenta divisa come non mai. Sembra di assistere – ma senza la caratura culturale di quei tempi e di quei protagonisti che, pur sbagliando drammaticamente, facevano politica e ne erano sinceramente appassionati – a un congresso del Msi. L’unico che poteva dire qualcosa veramente di destra era Storace. Il suo passaggio con Marchini, comprensibile dal punto di vista tattico, gli ha però tolto molto appeal specie tra i giovani di destra che nella Capitale sono molti. Sulla Meloni meglio sorvolare, non per motivi ideologici, ma perché l’ex allieva prediletta di Gianfranco Fini non ha messo in campo un’idea che fosse una. Nel centrosinistra, Roberto Giachetti, un gentiluomo che ama come pochi la sua città, sconta il fatto di essere del Pd. Del Pd romano che (eufemismo) ha prodotto più danni della grandine negli ultimi anni. Danni non solo pratici. Ha abbandonato gli ideali tipici della sinistra riformista per inseguire il dio-mercato, per impostare una narrazione politica incentrata sul liberismo che, inutile dirlo, è fallito miseramente e, più che altro, fa fallire tanti (troppi) italiani. Di Fassina s’è detto. Lui, transfuga dal Pd, non sarà un genio, ma certamente capisce di economia ed è persona onesta e di sinistra. Anch’egli sconta le alleanze: Sel, indecisa a tutto fuorché a perdere i posti di potere; Rifondazione, storicamente assai debole nella Capitale.
Bologna credo non abbia storia. Merola vincerà, non tanto e non solo per avversari debolissimi sia nella proposta che nella protesta (fare un comizio in piazza Verdi è solo una prova muscolare, non è politica), ma perché, inutile sottolinearlo, a Bologna c’è una ricchezza e una sensibilità per i destini umani diffusa. Magari il modello-Emilia non esisterà più o forse non è mai esistito, eppure i servizi funzionano, il centro è tra i più godibili d’Italia proprio perché bolognese, quartieri come Cirenaica o Santo Stefano o Porto o Saragozza – cito quelli che conosco meglio – sono fra i più comodi e puliti e vivibili che esistono in Europa.

E anche su Napoli c’è poco da dire. Ma all’opposto. Com’è ridotta lo sappiamo. Male. Malissimo. Se penso a sindaci come Maurizio Valenzi, se penso a quei tempi lontani quando vi abitai per qualche tempo, mi viene male. E non è che, anche allora, le cose fossero paradisiache, ma alcuni punti della città (è il caso di Posillipo) avevano un fascino e una vivibilità oggi scomparse. Rivince il plebeismo, il caos, l’antipolitica. E non perché De Magistris sia particolarmente accorto bensì per la totale mancanza di una valida alternativa. Vince, insomma, chi urla.
Diverso il caso di Milano. Secondo il mio parere, Stefano Parisi è un ottimo amministratore. Ha un passato riformista e idee abbastanza chiare. Per lui l’handicap è rappresentato dall’alleanza con il Carroccio. Un freno che allontana il voto della media borghesia milanese, una volta (una volta) la più illuminata d’Europa, specie nelle sue componenti laico-socialiste alla Aniasi o alla Tognoli o alla Craxi, tanto per fare tre nomi di peso. Molti conoscenti e amici milanesi, di sinistra, lo preferirebbero a Sala, ma la presenza leghista fermerà la loro mano nell’urna. Sala lascia perplessi perché chi si affanna a dire “io sono di sinistra”. O lo sei o no. Sono i comportamenti che fanno la politica, non le enunciazioni. Molto generosa, infine, la candidatura di Basilio Rizzo, uomo di altri tempi che però fa parte di una minoranza illuminata che, in tempi di sonno della ragione come questi, ha poche possibilità. Comunque vada, secondo molti osservatori, per i milanesi sarà positivo. Anche qui gioca però un dato oggettivo: e cioè che Milano funziona, specie dopo la cura-Pisapia (anche se, specie sul programma di privatizzazioni, ci sarebbe peraltro molto da dire…).
Infine, Torino. Vincerà Fassino. Ma non è una bella notizia perché è tra i maggiori responsabili del fallimento della sinistra. Meglio: di una mancata evoluzione in senso laico del fu Pci-Pds-Ds. La destra non esiste, divisa e rissosa. I grillini corrono con la Appendino, fresca e concreta ma, come tutti i grillini, troppo soggetta agli umori dei padri-padrone del MoVimento. Giorgio Airaudo (sinistra) è bravo, molto attaccato alla sua terra, eppure penalizzato da Sel (di cui ho già detto sopra).
Finalino. L’altra vera partita si gioca sulla partecipazione. E qui, resto muto. Non so che cosa scrivere perché non riesco a capire quanto la gente abbia voglia di andare alle urne. Temo poca, spero molta. Perché partecipare – comunque la si pensi – è fondamentale. E’ l’unica arma. In attesa che i partiti ritrovino la loro forza. E che i cittadini possano partecipare. Senza odiare, ma confrontandosi in amicizia sui temi di ogni giorno.