“In ogni caso, se uno aspira a diventare uno scrittore, l’ultima cosa che deve fare è seguire un corso di scrittura, e la prima è leggere romanzi, crearsi un repertorio di letture almeno decennale”. Ecco la “brutale sincerità” che Luca D’Andrea scandisce per i suoi lettori o, ancor di più, per chi vuol (vorrebbe) fare della narrazione una ragione di vita. Non so quanto lo scrittore abbia ragione. In generale, tendo anche io a diffidare delle scuole di scrittura. Poi quel “creativa” che spesso accompagna la parola mi lascia perplesso perché anche un documento notarile può essere creativo: la differenza è fra chi si fa capire e coinvolge emotivamente e chi no. Ma io non sono che un recensore, D’Andrea uno scrittore vero. E dire che il suo “La sostanza del male” (2016) è stato un trionfo per le nostre patrie lettere (anche se lui ritiene le letterature nazionali ormai sorpassate). E dire che Luca D’Andrea – il quale ha ripetuto il successo con “Lissy”, altro thriller, ma di diversissimo registro narrativo – solo tre anni fa era un professore. Precario. Speranzoso, ogni anno, di rinnovare il contratto nella scuola pubblica.

Perché vi racconto queste cose? Presto detto. Nella mia costante ricerca (meglio: fame terribile) di romanzi contemporanei, mi sono imbattuto, nella sezione critica letteraria di una libreria di Bologna, in un volumetto ben curato, stampato dai boys di minimum fax, editore cui sono molto legato perché padrone di un catalogo fuori dai luoghi comuni. Il titolo la dice lunga ed è una citazione: “Tre passi nel buio”. Spiegazione dell’opera nel sottotitolo: “Il noir, il thriller e il giallo raccontati dai maestri del genere”, vale a dire Massimo Carlotto, D’Andrea appunto e Maurizio De Giovanni.

Tre nomi che, credo, non abbiano bisogno di presentazioni. La raccolta delle interviste è curata da Luca Briasco. Luca fa assai bene il suo mestiere. Ponendo le giuste domande, ma non senza farsi vedere. Tranquilli, non ho esagerato col prosecco… Luca usa una tecnica molto, ma molto letteraria e umile al tempo stesso.

“Ho deciso – ci spiega – di non sovrapporre la mia voce a quella di Massimo, Luca e Maurizio, e di limitarmi a segnalare le mie domande e i miei interventi con tre punti di sospensione chiusi da parentesi. Si tratta di una tecnica che ho tratto di peso da Brevi interviste con uomini schifosi, di David Foster Wallace: un modo per segnalare i ritmi e la scansione di un dialogo, ma di lasciare al tempo stesso che a parlare e a raccontarsi fosse l’unica voce che davvero conta: quella dello scrittore”. Magnifico. La lettura ne risulta scorrevole ed efficace.

Perché vi prego di leggere questo librino di 106 pagine, formato tascabile (ideale se andate spesso in treno, in aereo o in bus), a 13 euri? Perché serve a capire come uno scrittore crea le sue opere. Serve a entrare nel laboratorio di tre grandi della letteratura contemporanea. Sia chiaro: questo non significa essere sempre d’accordo con gli autori. A esempio, il mitico Carlotto ci convince poco quando dice di lavorare su “una trama assolutamente blindata. Non amo le sorprese (…) solo una trama blindata mi consente di dosare la quantità di reale che devo inserire nei vari passaggi”. Al contrario, lo stesso Carlotto (che ambienta in un inquietante Nordest italiano i suoi noir più noti con la figura dell’Alligatore) dice la sacrosanta verità quando afferma: “Mi è stato detto più volte che ho una scrittura asciutta, economica; che non amo le sovrabbondanze, tendo a ossificare. Si tratta di un processo di graduale evoluzione: all’inizio scrivevo romanzi molto lunghi che poi provvedevo ad asciugare, mentre ora, dopo ventidue anni di scrittura, l’asciuttezza si è trasformata in un dato di partenza. In realtà, però, le mie scelte di stile e di ritmo fanno riferimento alla velocità di lettura (…) trovo la velocità di lettura un qualcosa di davvero affascinante”.

Stesso discorso vale per D’Andrea secondo il quale “l’ossessione di tanta narrativa moderna sul racconto del territorio ha qualcosa di eccessivo. Il territorio dev’essere una chiave per arrivare all’universalità: se invece diventa fine a se stesso, allora stai scrivendo una guida turistica. Serve anche quella, per carità: ma non sei più un romanziere”. Osservazione giusta che, però, sottovaluta il valore della letteratura cittadina. Laddove la città è protagonista, il romanzo è più avvincente e può aiutare davvero il lettore nella conoscenza dei “contesti”.

Lo stesso D’Andrea, alla pagina successiva, ci regala però (oltre all’ammonimento sulla scuola di scrittura citato a inizio recensione) una perla di vera saggezza: “La scrittura è un continuo processo di apprendimento. (…) la cosa che non forse non ti insegnano abbastanza è l’importanza di buttare via tutto quello che non funziona, e di riprovare”. Sintesi perfetta del perché la letteratura è mestiere faticoso ed esaltante al tempo stesso.

A chi vorrebbe fare questo mestiere, non smetto mai di ricordare che Alessandro Manzoni non scrisse “Quel ramo del lago di Como…” appena messo la penna sul foglio, ma che per arrivare a quell’immortale romanzo – che tutti, ma proprio tutti, dovrebbero leggere e rileggere – ci fu un lunghissimo lavoro preparatorio. Ho volutamente fatto quest’esempio “alto” per dire che si impara a fare letteratura. Ovvio: chi ha più talento è avvantaggiato, eppure anche il più bravo non può arrivare da nessuna parte se non studia, se non legge accanitamente, se non piglia appunti su un quadernino, se non riflette sul testo e non fa un’analisi del testo.

Molto bello il quadro di De Giovanni. Il quale, da par suo, ci illumina con un esempio che definire calzante è poco: “La scena più commovente della storia della letteratura mondiale è la gente che in Francia, sotto la pioggia, alle sei di mattina, aspetta l’uscita del giornale che ospiterà la nuova puntata del Conte di Montecristo. Questo è il successo: la dipendenza che la gente sviluppa verso le storie degli altri”. Vero, verissimo: provate a pensare solo alla dolce attesa dei nuovi romanzi con il commissario Montalbano (o alle fiction tv) del Maestro Andrea Camilleri.

Meno convincente quando Maurizio sostiene di non scandalizzarsi per le Sfumature. Come a dire: non fate gli snob, tutto purché si legga, se no si guardano telefilm. No. Ci sono telefilm molto molto molto migliori delle Sfumature. Divertono e magari fan pensare. Non poco di questi tempi in cui l’Italia è invasa. Non di migranti. Ma di devastanti stupidaggini pseudo politico-culturali.
LA FRASE Più BELLA: “Quando cominci a scrivere, molto spesso pensi di essere un tipo di scrittore che in realtà non sei” (Luca D’Andrea)
LUCA BRIASCO (a cura di), Tre passi nel buio, minimum fax, 13 euri