Se vi piace il basket degli ultimi tempi, dove i giocatori vengono sostituiti con una frequenza addirittura maggiore di quello che dovrebbero essere le norme igieniche per la biancheria intima, non apritelo nemmeno. Se però amate visceralmente la pallacanestro e siete stati piacevolmente storditi dall’argento olimpico di Mosca (1980) o dell’oro Europeo di Nantes (1983) allora dovete correre. Perché “Il mio basket è di chi lo gioca” – il volume che Meo Sacchetti ha scritto a quattro mani con Nando Mura per Add editore – è un vero gioiello. Un gioiello di ricordi e di storie.
Un tuffo nel passato più bello e genuino della pallacanestro italiana, dagli anni Settanta ai giorni nostri. Mi è capitato, da ragazzino, di vedere Meo giocare il sabato pomeriggio al palasport di piazza Azzarita, nel centro di Bologna, con la maglia del Gira, la terza torre di Bologna. Era la fine degli anni Settanta: con quei baffoni, quella mole imponente e quella leggerezza che avvertivi nelle sue giocate, non poteva che ispirare simpatia. E il fatto che Meo, durante le avventure in azzurre facesse coppia fissa con Roby Brunamonti (un’altra icona per chi ama questo sport), rende il tutto ancora più affascinante e intrigante. In 189 pagine, che si leggono tutte d’un fiato, c’è tutto il Meo Sacchetti che abbiamo ammirato negli anni. Ma anche il Meo segreto, con i suoi affetti, le sue storie toccanti (il papà scomparso quando lui era ancora piccolo), la sua famiglia. L’origine del nome, Sachet, i genitori emigrati in Romania e poi, agonisticamente parlando, Torino, Varese, Capo d’Orlando e tanta Sardegna. Quella Sardegna che Meo ha portato ai massimi livelli. L’incontro con Gigi Riva. E, ancora prima, quelli con Sara Simeoni e Pietro Mennea, alle Olimpiadi del 1980. Il rapporto con i coach che gli hanno lasciato qualcosa dentro – da Sandro Gamba al barone Sales, dal Vate Bianchini a Dido Guerrieri – trasmettendogli la passione per il lavoro, da allenatore, che ha intrapreso una volta appese le scarpette al chiodo. Un uomo di sport, Meo, che racconta e si racconta con gli occhi di un bambino. Un bambino curioso e interessato. Che magari rimane scottato dalle freddezza di Kareem Abdul Jabbar e Larry Bird (ai quali aveva chiesto una foto ricordo), ma non per questo perde la stima e il rispetto verso miti della sua vita. Ci sono personaggi famosi e meno famosi. Ma ci sono le storie di un uomo vero di sport. Che porta in giro la sua pallacanestro in allegria, con il sorriso sulle labbra. C’è anche il distacco (e un po’ di amarezza, forse più dura ancora di quella dell’infortunio che gli impedì di terminare una finale scudetto con Varese) con Sassari, un esonero quasi traumatico (amarezza, non rabbia). Ma se anche in questo caso, c’è un po’ di malessere, restano gli occhi di un “bambino” di poco più di sessant’anni che continua a guardare avanti. Che sa di aver avuto la fortuna di giocare. E che dispensa tutto il suo sapere. C’è un passaggio, nel volume, che ci ha colpito. E che forse colpirà altri. E che fa riflettere. Anche alla luce di questo basket frenetico degli uomini anni. Racconta della scomparsa di un suo giocatore, Meo, agli esordi da allenatore. E nella spiegazione offerta per raccontare la sua esperienza con i campionati minori, si sofferma sulle differenza tra professionale e professionista. Un’analisi, forse, dove è possibile ritrovare anche la sua filosofia di vita. “Professionale e non professionista, perché un professionista vive di basket, è il suo lavoro, dalla pallacanestro riceve i soldi con i quali costruisce la propria esistenza fuori dal parquet. Il professionale invece è uno che, non importa se in serie A o nelle minors, fa tutto con grande passione, responsabilità e onestà al di là dei guadagni, dei successi, della popolarità che ne può conseguire”.
Ecco, Meo è uno dei migliori esempi di professionista professionale. Di persone per le quali vale la pena, sempre e comunque, di seguire la pallacanestro. Di persone da prendere come esempio per costruire il proprio futuro. Non solo in palestra.