Com’è dolce la notte di San Marino. Forse perché la Riviera Romagnola è a due passi e si sente ancora il profumo delle vacanze. Forse perché non si fa mai l’abitudine a queste notti magiche che solo la Fortitudo è in grado di regalare.

Fortitudo campione d’Italia: “I campioni d’Italia” siamo noi, cantano a squarciagola capitan Vaglio e compagni. “Presidente non ci lasciare” cantano tutti al presidente Stefano Michelini che ha annunciato in tempi non sospetti (prima della Champions League) l’intenzione di chiamarsi fuori. Ci sarà tempo per pensare al futuro – anche se l’avvocato Pierluigi Bissa è qualcosa di più di una semplice candidatura forte per la successione -, adesso è il momento di celebrare un gruppo di uomini veri, che hanno una guida esterna, Lele Frignani e un’altra in campo, Alessandro Vaglio.

E’ la notte dei mille pensieri perché se si riavvolge, come in un film, il nastro dei playoff, si scopre una serie di emozioni incredibili. Soprattutto in semifinale. Talmente incredibili, queste emozioni, da far passare quasi in secondo piano, come se si trattasse di routine, la finale tricolore con San Marino. Un giorno, sui libri di storia, comparirà solo il 3-0 con cui la Fortitudo ha chiuso i conti in tre partite. Impossibile però non ripensare a gara-due, all’ultimo inning che l’UnipolSai ha cominciato sotto 5-3, con già due eliminati. Un piede nella fossa, per tutti, non per la Fortitudo.

E’ un trionfo – mai centrata l’accoppiata Champions-scudetto in casa Fortitudo – che ha tanti protagonisti. Difficile sceglierne uno solo e allora proviamo a immortalare, uno dopo l’altro, i protagonisti.

Raul Rivero in gara-tre tira 102 lanci con la verve di un ragazzino, ma anche la saggezza del veterano.

Stephen Perakslis chiude gara-tre da par suo, dopo essere stato il vincente del primo confronto.

Osman Marval è quello che suona la carica, che proprio nei playoff ha ritrovato la sua straordinaria puntualità in battuta.

Alessandro Grimaudo è quello che ha sparigliato le carte. Settimo in battuta a chi? Il mancino è uno di quelli che è cresciuto di più nei playoff.

Andy Paz? Vogliamo parlarne? Paz di nome e di fatto. Ma nel senso buono. E’ lui, Paz, che scaglia la pallina dove non può arrivare nessuno firmando fuoricampo e primo punto a Serravalle. E’ lui che, sacrificandosi nel ruolo di catcher – ma che ginocchia bioniche devono avere i ricevitori – ha consentito a Marval di crescere.

Vaglio è il capitano e, per lui, basta la parola. Capitano e leader.

Filippo Agretti il designato che non molla mai.

Lorenzo Dobboletta il baby cresciuto in casa che non ha tremato quando ha dovuto prendere il posto dell’infortunato Ericson Leonora. Leonora che, prima del crac alla caviglia, è uno che ha sempre fatto la differenza.

Leo Ferrini ha sofferto tanto, tantissimo, soprattutto in battuta. Ma quando è servito, ha firmato il sorpasso in gara-due.

Francesco Fuzzi è il “sottovalutato” (dagli altri). Come cuore e grinta non ha rivali. Ma anche come umiltà. Sarebbe titolare ovunque: ha sposato la Fortitudo per continuare a vincere.

Nick Nosti non è stato brillante in finale? Vero, ma Nick è uno che non molla mai. Se è arrivato lo scudetto è anche merito suo.

E Polonius? Due gambe smisurate, i movimenti quasi da “fumetto” (modello Tiramolla), sorriso a 32 denti. Un campione al servizio del gruppo.

Murilo Gouvea-Brolo ha la faccia da professore: quando sale sul monte dà lezioni.

Così come Claudio Scotti, che è il bimbo scoperto quasi per caso da Christian Mura. Ma in Fortitudo il caso non esiste, c’è solo una squadra che sogna e programma sempre. E spesso vince.

Pippo Crepaldi è il closer per eccellenza, mentre Tony Noguera, pur non avendo mai giocato in finale era lì, pronto per dare una mano.

Non ha tremato Alex Bassani, uno cresciuto in Fortitudo e che, finalmente, in questa stagione, in Fortitudo c’è tornato. Con il piglio giusto.

Andrea Pizziconi è il diesel sul quale fare sempre affidamento.

Possiamo forse dimenticare Alex Russo? Quando conta – vedi gara-due – la valida che risolve il tutto. In una stagione così c’è stato anche qualche errore di valutazione – Martina, Kindelan, Rodriguez -, ma i giocatori e la loro capacità di inserirsi in un gruppo, senza rompere l’alchimia, li devi testare sul campo.

E poi, fuor di metafora, anche loro sono serviti per vincere.

La Fortitudo ha vinto, per la prima volta, come dicono gli americani, ha ottenuto il “repeat”, uno scudetto dietro l’altro. L’appetito vien mangiando, sostiene un vecchio adagio e il “three-peat” non è così impossibile da ipotizzare perché il gruppo e la squadra sono davvero validi.

Ma sarebbe ingiusto pensare al futuro. C’è solo il presente e una dolce notte da celebrare. La Fortitudo è campione d’Italia: la città di Bologna deve davvero tanto a un club che, nel corso del terzo millennio è stata capace di vincere 7 scudetti, 8 Coppe Italia, 4 Coppe Campioni e una Supercoppa. Il totale fa 20 trofei in 19 anni. Più di uno di media l’anno. Bastano per alzarsi in piedi e applaudire una società modello?

Bastano e avanzano. Grazie Fortitudo.