C’è un popolo di orfani seduto in platea. Canuti, con un po’ di pancia vengono da mezz’Italia a cercare il verbo di un mondo antico ma mai dimenticato: quello dei Genesis. E in mezzo al palco c’è quello che loro chiamano “il maestro”, Steve Hackett, 69 anni, ma una verve da ragazzino e ormai italiano adottivo, considerati i frequenti tour in una penisola ancora assetata della musica di uno dei più grandi gruppi progressive rock.  A Bologna l’Europauditorium era bello stipato, perché Hackett è l’unico dei Genesis per i quali il tempo non pare essere passato. Peter Gabriel non incide album inediti dal 2002, l’amato-odiato Phil Collins è malandato anche se in qualche tour si cimenta ancora, Tony Banks si è ormai dedicato esclusivamente alla composizione di musiche sinfoniche mentre Mike Rutherford  con i suoi Mike + The Mechanics fa tutta un’altra musica.

Resta lui, il vecchio Steve, immerso nella sua bolla temporale per la gioia degli orfani. A Bologna spacca lo show in due come una mela: nella prima si concentra in due album della sua infinita produzione solista:  qualche pezzo dall’ultimo, ‘At the edge of light’, e molto da ‘Spectral mornings’, uscito giusto 40 anni, un buon album. Il concerto inizia infatti con ‘Everyday’, un brano godibilissimo, con il lungo assolo di chitarra finale,e procede con ‘The virgin and the gypsy’ (con Hackett cantante), ‘Clocks the angels of mons’, ‘The red flower of Tachai blows everywhere’ e soprattutto la title track, una composizione lunare, anzi, viene logico da definire ‘spettrale’, anche questa infiammata  da lunghi assoli di chitarra.  La torrenziale produzione solista di  Hackett  non è sempre stata felice, com ‘è logico che sia in una carriera così lunga, ma tutta basata su un innegabile senso di coerenza: il filo rosso che porta al giacimento del progressivo rock non è stato mai spezzato.  Le sfumature della sue musica restano sempre quelle, il popolo degli orfani dei genesi lo adora perché lo considera  una sorta di ultimo ambasciatore, uno di quelli che non ha tradito le proprie radici. E l’esecuzione di ‘Spectral morings’ è applauditissima, anche se sono tutti lì per il secondo tempo, per l’esecuzione integrale di ‘Selling England by the pound’, album dei Genesis del 1974. Fa impressione sentire il crinuto cantante Nad Sylvan intonare l’intro  a cappella di ‘Dancing with the moonlight light’ (“Can you tell where my country lies…”) tanto legato alla voce di Gabriel. Sylvan spesso è stato contestato sul web dai fan di Hackett, viene considerato un cantante modesto, non all’altezza dei capolavori affidatigli. I suoi look un po’ troppo barocchi (capelli lunghissimi, abiti ricamati…) poi fanno spesso sorridere, ma a Bologna se la caverà tutto sommato discretamente. La riproposizione dell’album è comunque meravigliosa: l’intro pianistico di ‘Firth of fifth’, uno dei brani preferiti da Hackett, è fiabesco: il lungo assolo di chitarra è una meraviglia, perfettamente incastonato  in una melodia immortale, e quando l’ultima nota scivola via uno spettatore urla “Capolavoro!!!”. E’ un tripudio, un trionfo: ‘Cinema show’ è il gioiello di sempre e lo strumentale ‘After the ordeal’ simbolo di una musica che non conosce tramonto. Siamo alla fine. Per i bis Hackett ripesca ‘Dèjà vu’, una canzone mai incisa per ‘Selling England by the pund’ e l’incendiaria ‘Los Endos’, da ‘A trick of the tail’. Sipario, ma per poco, il maestro tornerà in estate.