Non esiste nulla come un concerto dei King Crimson. Semplicemente perché non esiste nulla come i King Crimson. Nulla che abbia saputo attraversare le dimensioni del tempo incurante di un mondo che viaggiava su un altro binario, non certo parallelo. Come ogni sovrano che si rispetti, il Re Cremisi è su un altro piano, ieri, oggi e domani, ma regala a sudditi fedeli, e  anche ai nuovi, una storia sempre diversa, che non si stanca di raccontare e noi di ascoltare. Perché i concerti del Re Cremisi sono riti particolari, estenuanti se vogliamo: due ore e mezza che prosciugano la mente della platea ma che alla fine ti lasciano una certezza nel cuore: non vedrai nè ascolterai mai più nulla di simile. E così resta negli occhi lo stupore della folla assiepata sotto il palco dell’arena Giuliana a Perugia, a Umbria Jazz 2019, nell’atto finale della prima parte del tour per i 50 anni di storia del gruppo, resta lo sguardo di eterni bambini dai capelli ingrigiti ma per sempre innamorati di una musica senza tempo e senza confini, e soprattutto cangiante perché la vera sfida del Re Cremisi è non rimanere mai uguale a se stesso, sorprenderti sempre, magari col sorriso sornione del suo leader, Robert Fripp, ultimo a salire sul palco e ultimo ad andarsene con quel look da travet con cui da mezzo secolo tenta di camuffare un talento senza uguali. Ma attenzione, anche i sudditi sono cambiati: certo, c’è chi ha un debole per la melodia e ascolterebbe soprattutto pezzi dai primi quattro album ma anche chi non può fare a meno dei riff lancinanti, lunari, vorticosi e delle sperimentazioni epocali, ad esempio, di ‘Discipline’, uno dei tanti dischi della rinascita di un sovrano immortale, che a Perugia viene omaggiato con addirittura quattro pezzi.

Sì, niente assomiglia a qualcosa che tu abbia già visto: lo hai ben chiaro quando le tre batterie, piazzate davanti, accendono la serata, e non puoi fare a meno di pensare, quanto lavoro c ‘è dietro tutto questo? E’ un mosaico paziente: Mel Collins con i suoi fiati ci riporta ai toni sognanti della prima fase degli anni Settanta ma regala spesso anche un’impronta jazz assolutamente originale, che ci rammenta sempre come i King Crimson siano tutto e il contrario tutto. ‘Cirkus’, ‘Epitaph’, ‘Moonchild’ e ‘Court of the Crimson king’ scaldano il cuore di chi vorrebbe tornare indietro nel tempo e rivivere anni ineguagliabili. Ma quando piomba il riff allucinante di ‘Frame by frame’ il viaggio ti porta in un’altra epoca, dove il Re Cremisi smette le sue vecchie vesti per provarne altre, incamminandosi in un sentiero a lui sconosciuto lungo il quale le contaminazioni con la New wave degli anni 80 fecero germogliare un disco di irripetibile grandiosità come ‘Discipline’, dove l’arrivo di una seconda chitarra, l’amatissimo Adrian Belew, e soprattutto di Tony Levin, ancora qui oggi come allora, con il suo Stick bass, dimostrarono che le idee del Re Cremisi potevano prendere nuova forma, sconvolgente, rivoluzionaria ma sempre folgorante, e che quindi la visione di Fripp era giusta, come sempre. A Perugia ci sono cinquant’anni di vita e una quindicina di album in studio da rileggere, e non esiste scaletta che possa accontentare tutti. Ma esistono pezzi che mettono in pace con il mondo, e uno di questi è ‘Islands’. Una decina di minuti di incontaminata purezza, un lirismo struggente che culmina in un crescendo avvolgente accompagnato dai caldi colori del sax di Collins e intensamente cantato da Jakko Jakszyk. Il suo modo di cantare non piace a tutti i fan, a volte va un po’ in difficoltà (‘Starless’) eppure ci mette personalità e pathos, e va apprezzato anche per questo. E poi non può venire in mente che Jakko cantò una versione di ‘Islands’ al funerale di Ian Wallace, il batterista dei King Crimson di quel disco. E Bop Fripp ne rimase talmente colpito da chiedergli di entrare a far parte dell’attuale reincarnazione del Re Cremisi. Dove saremmo e con chi saremmo se Jakko non avesse accettato? Chissà. Ma per fortuna siamo qui. Ad ascoltare la nitidezza stellare di ‘Sheltering sky’, un po’ rovinata dall’andirivieni di persone dal bar, e stupirsi ancora una volta dalla geniale architettura di ‘Starless’, forse il pezzo che rappresenta più di tutta la summa del Re Cremisi, con quell’intro spettrale regolarmente accolto da un boato e un refrain di chitarra che a volte ti sembra un violino tanto è melodico e dolce, prima di spalancarti le porte di un tunnel  dove ad un tratto la forma canzone si interrompe per lasciarti appeso ad un accordo di chitarra ripetuto all’infinito prima che si scateni un delirio strumentale. E  lì il sax di Collins si avventura nelle praterie del free jazz con una scorribanda furibonda e incontenibile, ma capace nel finale di ritrovare il filo della dolcezza iniziale. Un capolavoro senza tempo, di una modernità intatta. L’anticamera dell’immortalità. E difatti subito dopo si arriva al momento che tutti i fan aspettano: all’unico bis possibile a questo mondo ad un concerto dei King Crimson. Ancor prima di sentire filtrare l’intro delirante di 21 st schizoid man, il pubblico si catapulta sotto il palco. Si alzano gli smarthpone, proibitissimi dal Re e dal buon senso, e c’è pure chi si filma tutto il pezzo: un errore, non solo per aver violato la legge del Re Cremisi quanto soprattutto per non capire che così ci si perde qualcosa di unico, da guardare e assaporare con i propri occhi, da imprimere con l’amore nella mente meglio di quanto possa fare il file di un cellulare. Undici minuti di selvaggia bellezza da perdere la testa, il che accade quando Gavin Harrison si avventura in un assolo di batteria da rimanere senza fiato e il collega Pat Mastelotto si alza in piedi dallo sgabello immerso fra piatti e tamburi ed esaltato arringa la folla incitandola all’applauso. E’ l’apoteosi, anzi, l’apocalisse, se pensi alle tonalità aspre del brano. Ma non è finita, perché deve arrivare il momento che tutti aspettano e che ogni amante di musica dovrebbe ascoltare dal vivo almeno una volta nella vita: l’assolo finale che coinvolge tutti i musicisti, velocissimo e sincopato, un pezzo di storia. E qui una donna sui sessant’anni si mette le mani sul viso, ascolta rapita con i grandi occhi chiari spalancati per lo stupore: sta tornando indietro nel tempo, alla sua gioventù. E poi si accascia a terra sfinita. Ma felice.

Andrea Degidi