I suoi concerti sono da sempre spiazzanti, i dischi non più tanto belli, la voce nasale come non mai e il mattatore tutto tranne che simpatico. Ma c’è un coerenza di fondo, con gli anni rimasta limpida, un pegno di lealtà in un mondo rigorosamente tenuto a distanza perché è l’unico modo per salvarsi,  dove per business ci si vende a mode, tabloid e tv ad ogni sospiro. Soprattutto ci sono quelle parole, che nessuno ha saputo usare meglio di lui. Una amica in questi giorni mi diceva: non so pensare agli anni 60 senza le canzoni di Bob Dylan. Sacrosanto. E ora qualcuno ha deciso che quelle parole, quei testi delle canzoni, meritano il premio Nobel della letteratura. Lo candidavano da anni, nessuno pensava sarebbe mai successo e così quando accade, in tanti si sentono spiazzati. E come sempre capita che qualcuno  gridi all’invasione di campo in un mondo sempre troppo pieno di orticelli coltivati da gestori quanto ambiziosi fattori. Ma Dylan è un poeta, prima ancora che musicista, i suoi testi hanno lasciato il segno, le sue non sono solo canzoni, ma comete da inseguire verso nuovi orizzonti, lo hanno fatto generazioni e generazioni. Quando decenni fa c’era chi cantava ‘She loves you’ e altre frivolezze del genere, lui fece capire che le parole, le canzoni, potevano servire anche ad altro, potevano essere un  mezzo per lasciare il segno in una società che cambiava perché i tempi stavano cambiando, parole a volte non cantate ma  rantolate con voce roca, una semplice chitarra acustica e un’armonica, prima della contestata svolta elettrica di Newport del 1965. <La mia chitarra  uccide i fascisti>, teneva scritto sullo strumento l’antesignano Woody Guthrie, una lezione appresa in pieno dall’uomo di Duluth. La musica è poesia e quindi letteratura: Bob Dylan è un poeta, come Leonard Cohen, Tom Waits, lo stesso Woody Guthrie, Jacques Brel, John Lennon e Fabrizio De Andrè. Premiare chi scrive canzoni significa abbattere gli steccati che solo un mondo ottuso si ostina a erigere. Poi, certo, Dylan viene premiato per canzoni scritte 50 anni fa, ma perché stupirsi, perché definire la scelta dell’accademia svedese un inutile tuffo nel passato? Il Nobel è un oscar alla carriera: è come un vecchio che si guarda alle spalle dopo una lunga salita e brinda a quanto di buono è stato fatto nella vita. E Dylan di strada ne ha fatta. Da tempo non lascia più il segno, i concerti sono dissacranti e lasciano i delusi i fan più banali, ma non fermatevi alla sua musica, leggete le sue parole. Procuratevi i vinili di ‘The freewheelin’ Bob Dylan’, ‘Highway 61 rivisited’, ‘The times they are a changing’, ‘Blonde on blonde’, poi fermatevi ad ascoltare. Incontrerete canzoni pienamente formate, ‘Like a rolling stone’, con quel colpo di rullante che suona come un colpo alla nostra coscienza, come disse qualcuno, ma anche nenie apparentemente noiose come ‘A hard rain’s gonna  fall’, ‘Masters of war’ dove ogni parola ha un suo senso, uno suo peso specifico. E quel che più conta parole scritte mezzo secolo fa ma attuali ancora oggi. Ecco perché Bob Dylan merita il Nobel. Ed essendo coerente difficilmente andrà a Stoccolma in smoking: c’è da aspettarselo col cappello da cowboy, gli stivali e i baffetti da gambler di saloon. Con lo stesso sorriso sornione di sempre. Anni fa non l’avrebbero mai premiato, ma oggi, come profetizzava lui stesso, i tempi sono cambiati.