Il suo nemico è sempre stato il tempo. Per realizzare ciò in cui credeva Peter Gabriel ne ha sempre avuto bisogno di molto, anche troppo, visto che parliamo di un artista in letargo, ahimè, considerando che l’ultimo disco di inediti, ‘Up’, risale al 2002. E lui lo sa bene, una volta, scherzando, disse che se esistesse il partito delle tartarughe, ne se sarebbe indiscutibilmente il capo. Scherzava, ma non troppo, Ma il tempo corre incurante delle debolezze umane, il tempo che oggi ricorda a Peter Gabriel i suoi 70 anni. Nacque il 13 febbraio 1950, nel Surrey, da una buona famiglia che lo mandò poi a studiare in una scuola vip, la Charterhouse. E lì, sulla tastiera di un vecchio pianoforte, tutto iniziò, nello scantinato di un collegio austero e immerso nel verde, dove il ragazzo era abile a farsi trovare sempre un passo davanti agli altri. con proposte, talento e idee. Creativo e geniale come pochi, timido nella vita ma carismatico sul palco, Gabriel ha vissuto almeno un quarto di secolo all’avanguardia, prima di adagiarsi sul letto di una pigrizia che i suoi fan faticano a perdonargli. Ma la sua è stata una carriera formidabile, che val la pena di ripercorrere nel giorno del suo settantesimo compleanno. Una carriera spaccata a metà, come una mela. La prima lo vede con i Genesis. Sono dei ragazzini, hanno appena 19 anni quando firmano un contratto con la Decca Records ingolositi dall’impresario Jonathan King. I loro genitori li hanno rinchiusi nella Carterhouse perché diventino rispettabili professionisti, non musicisti fricchettoni, ma quando Gabriel stringe amicizia con Tony Banks i due studentelli brufolosi gettano un seme che regalerà al mondo pop rock frutti meravigliosi.
Narra la storia che i Genesis si dovessero chiamare in realtà Gabriel’s Angels, questo per far capire quanto fosse centrale da sempre la figura di Gabriel. Quando i Genesis si rinchiusero in un cottage in campagna per fiutarsi, capirsi e affinare il loro sound, era lui che si recava al telefono pubblico più vicino per contattare i vari impresari perché venissero in quello sperduto angolo d’Inghilterra a sentire “una band promettente”. Perché lui non è solo il cantante del gruppo, ne è l’anima: sul palco vince la naturale timidezza trasformandosi in un frontman animalesco, che all’inizio non tutti capirono. Difatti nel 1971 ad un certo punto di un concerto, in piena estasi adrenalinica, si gettò in mezzo al pubblico del Friars, un locale di Aylesbury. Ma gli spettatori quando videro che questo pazzo prendeva la rincorsa per scagliarsi fra di loro, cosa fecero? Ovviamente si spostarono, e Gabriel atterrò sul nudo pavimento, sfasciandosi la caviglia. Non c’erano stampelle a disposizione, cantò il bis appoggiandosi a una scopa. Sembra leggenda, è storia.
I Genesis faticarono a decollare: i primi dischi furono snobbati in patria, se li filavano solo Belgio e Italia. Gabriel una volta chiese ad un suo roadie perché nessun giornale li prendeva in considerazione e il ragazzo con la massima naturalezza possibile lo gelò così: “Perché in scena durante i vostri concerti non succede mai nulla, siete noiosi come la morte”. Era in effetti vero, i Genesis erano ottimi musicisti e compositori di talento, con il loro prog rock dalle profonde venature barocche, ma poco spettacolari: suonavano tutti seduti, senza effetti speciali se non la loro, meravigliosa, musica. Ma serviva anche altro. Allora Gabriel studiò qualcosa: prima cominciò a radersi un triangolo di capelli nel mezzo della fronte, poi un giorno del 1972, a Dublino, andò dietro le quinte, indossò un un abito rosso della moglie Jill e con quello fece l’ingresso, fra bisbiglii di stupore, durante il finale di ‘The musical box’, con una maschera di cartapesta a forma di testa di volpe sul capo. Ovviamente la settimana dopo i Genesis erano sulla copertina di ‘The melody maker’, la bibbia musicale britannica. E tutti parlarono di loro.
Col tempo, inevitabilmente, i Genesis diventarono per molti la band di Gabriel, anche se i brani erano firmati da tutti. ma quando hai un leader che si prende la scena è inevitabile, pensiamo a Ian Anderson dei Jethro Tull e a Bono degli U2, per fare due esempi anche diluiti in un ampio arco di tempo. Peter Gabriel era davvero la pietra angolare del gruppo: moltiplicò i travestimenti in scena, sulla scia dell’art rock di David Bowie e Marc Bolan, e fra un pezzo e l’altro mentre i compagni accordavano gli strumenti, intratteneva il pubblico raccontando storielle. Addio timidezza, il ragazzo cresceva, in personalità e carisma, e non tutti all’interno del gruppo gradivano. Così quando nel 1974 i Genesis si trovarono per decidere che disco realizzare, lui spiazzò tutti: Michael Rutherford propose un concept album incentrato su ‘Il Piccolo principe’ di Saint Exupery, Gabriel rilanciò con l’idea che gli frullava nella mente: le avventure di un ragazzo, Rael di origine portoricana a New York. Passò la sua idea e si incaricò di scrivere i testi. Solo che ad un certo punto ricevette una telefonata, era William Friedkin, regista de ‘L’esorcista’. Aveva letto un racconto di Gabriel stampato sul retro della ver di un album della band, conquistato, gli chiese di scrivere una sceneggiatura per lui. E Gabriel accettò, ma quando lo disse ai compagni, loro risposero: o noi o Friedkin. Discussero, Non ci fu nessuna sceneggiatura, il manager del gruppo ricompose la frattura, ma temporaneamente. Qualcosa si era rotto. L’album fu finito e alla fine del tour Gabriel lasciò il gruppo. Era il 1974. Stava per iniziare la sua seconda vita.
Mentre i compagni risorsero rapidamente, guadagnando treni di soldi con un pop furbetto e banale, Gabriel si rifugiò nella sua casetta di Bath, in campagna. Lui e la moglie misero al mondo due figlie, Anna e Melanie, dedicando tempo all’orto del giardino. Musicalmente parlando non aveva ancora le idee chiarissime: il suo primo disco da solista arrivò due anni dopo, con la produzione pesante, molto americana, di Bob Ezrin. Ma ‘Peter Gabriel I’, chiamato anche ‘Car’, conteneva due capolavori: ‘Here comes the flood’, anche se in una versione ridondante, e ‘Solsbury hill’, futuro tormentone dei concerti. in ‘Peter Gabriel II’ il sound inizia a evolversi. Peter Gabriel ricerca, sperimenta, lavora in coppia con Robert Fripp, padre padrone dei King Crimson. E’ un disco con una stella in più rispetto al precedente: brani epocali come ‘On the air’, ‘White shadow’, la dolce ‘Mother of violence’ composta insieme alla moglie Jill, sono gemme promettenti. Il sogno dell’ex arcangelo dei Genesis prende forma completamente nel terzo capitolo, nel 1980, indovinando l’alchimia giusta, l’ardito connubio fra sperimentazione e melodia, con atmosfere spesso cupe, ma architetture sonore perfette e plasmate grazie al sapiente ricorso dell’elettronica. ‘Gabriel III’ è’ un disco bellissimo, proiettato nel futuro. Lo si capisce anche dal robotico incedere del primo pezzo, ‘The intruder’. Gabriel chiamò il vecchio compagno di avventura dei Genesis, Phil Collins, tentandolo, ma alle sue condizioni: “Vuoi suonare la batteria nel mio nuovo disco? Ma non dovrai usare i piatti’. Accettò. Un album intero senza piatti, ma bellissimo. Pezzi memorabili come ‘Family snaphsot’, ispirato al tentato omicidio di un politico americano, un brano che parte piano per trasformarsi in una galoppata furiosa sorretta dal sax, con un finale struggente. Poi ‘I don’t remember’, ‘No self control’ con Kate Bush ai cori e la finale ‘Biko’, il pezzo-inno con cui da quel momento in poi chiuderà i concerti. Un momento epico, con Gabriel che ricordando l’attivista politico Steve Biko ucciso nella Sudafrica dell’Apartheid, canta ‘Voi potete spegnere una candela, ma non potete spegnere il fuoco”. Il disco ha successo, e dire che quando portò le prime canzoni all’Atlantic, vennero ritenute troppo complicate, inadatte al mercato, e rifiutate. Sarà la Mercury a stampare il disco, l’Atlantic dopo tenterà invano, di comprare qualcosa che era già suo. E’ il 1980, e Peter Gabriel torna per la prima volta in Italia a cantare dal vivo: tre concerti, affollatissimi, con un pubblico dove i vecchi fan dei Genesis, speranzosi di qualche bis retrò, si mescolano a quelli conquistati dai nuovi dischi. Il viaggio nella ricerca di nuove emozioni e colori diversi è appena iniziato e sfocia, nel 1982, nel quarto volume solista: un altro album straordinario. Difficile, ma la bellezza non è sempre per tutti, la devi capire, apprezzare. Qui si viaggia nell’oscurità dell’anima, con un suono cupo, viscerale, ossessivo e notturno. Gabriel attinge a piene mani dalla versatilità che gli concede l’uso del Fairlight Cmi, un apparecchio che trasforma ogni suono in musica. Già il primo pezzo, ‘The rhythm of the heat’, è un capolavoro, parte lento, con urla lancinanti e avvampa in un tambureggiante finale. Gabriel lo userà per aprire i concerti di questo tour. Tutti conoscono ‘Shock the monkey’, ma è bello l’intero disco: ‘Wallflower’ è una ballad struggente, ‘San Jacinto’ un omaggio ai pellerossa, un pezzo in crescendo, con quell’urlo, ‘I hold the line’, che scuote le coscienze. Ma non c’è un brano da buttare via: ‘The family and the fishing net’ ha una struttura complessa quanto affascinante, in ‘Lay your hands on me’ Peter dal vivo riuscirà dove aveva fallito al Friars, nel 1971; buttarsi in mezzo ai fan, che stavolta lo sorreggeranno passandoselo adoranti, come una divinità. Con i volumi III e IV, Peter Gabriel tocca il top della sua produzione artistica ottenendo un buon successo di vendite. Dimostra di essersi non solo completamente distaccato dal suo passato dei Genesis, ma di non temere di spingersi in territori accidenti ed inesplorati. Anche se qualcosa sta per cambiare. Fra tour e altri progetti, i tempi cominciano fatalmente a dilatarsi: serviranno altri quattro anni per un nuovo album. Che sarà quello della svolta, in tutti sensi. Perché quando nel 1986 la sua storica manager Gail Colson gli fa visita in sala di registrazione, sente che Gabriel sta provando un nuovo pezzo. Quando va via non ha paura di sbilanciarsi: “Sarà un hit pazzesco”. Ha ragione, perché è ‘Sledgehammer’, il pezzo dell’album ‘So’ che sdoganerà il suo protetto nelle classifiche di tutto il mondo, consacrandolo come una rockstar. E’ un disco diverso dai differenti, bello, ma più facile: suona molto Motown, con sezioni fiati e un pop a volte fin troppo lavorato. Un album da hit parade, ma che fa un po’ stocere il naso ai fan dei volumi sperimentali ‘III’ e ‘IV’. Ma al di là di ‘Sledgehammer’, tormentone nei concerti, fioriscono brani stupendi, come la crepuscolare ‘Mercy street’, dedicata alla poetessa inglese Anne Sexton, ‘Red rain’, la funkeggiante ‘Big time’, ‘Don t’give up’, immortatalata da un video storico e tenero con Kate Bush, e soprattutto ‘In your eyes’, canzone d’amore struggente e meravigliosa, con le voci del grande Youssou’Ndour. Il successo è planetario, così grande da imprigionare Gabriel e condannarlo a cercare un disco replicante negli anni successivi, senza riuscirci. Non può esserlo il difficile e affascinante ‘Passion’, la colonna sonora de ‘L’ultima tentazione di Cristo’, disco sperimentale, ma con momenti di alto lirismo, come ‘With this love’. Bisognerà aspettare il 1992 per ‘Us’, un buon album, ma incapace di reggere il passo di un simile boom commerciale, nonostante buone canzoni come ‘Blood of Eden’, con Sinead O’ Connor , ‘I love to be loved’, ‘Come talk to me’ e ‘A secret world’. Gabriel si imbarcherà in un tour pazzesco, dal forte impatto scenico, culminato in un paio di clamorose date al Palasport Modena con una band stellare, dove spiccano Tony Levin allo stick bass, il batterista Manu Katché e la cantante Paula Cole. Un trionfo assoluto, all’insegna della world music, anzi, della musica senza frontiere. Ma nessuno da che in quel momento l’arcangelo ha deciso di sparire dai radar. E sarà un’assenza di dieci anni.
Mentre tutto il mondo lo acclama, Gabriel contravviene alle regole del business e scompare dalle scene. Si separa dalla moglie dopo infiniti litigi e dispettucci reciproci e nella sua vita entrano donne dalla bellezza mozzafiato, come Claudia Schiffer e soprattutto Rosanna Arquette; il primo è un flirt, la seconda una relazione vera e propria, che non durerà comunque troppo, lei lo lascerà perché si sente trascurata. All’attrice dedica ‘Us’, come pure alle figlie, vittime dei suoi scompensi ormonali. E la musica? Tranquilli, Gabriel non la molla, solo che il tarlo della lentezza si è ormai impossessato di lui: coltiva con cura la sua casa discografica, la Real World con studi avveniristici a Bath, dove artisti misconosciuti danno alla luce dischi intriganti quanto difficili dal punto di vista commerciale, unica eccezione, le opere del grande Nusrat Fateh Ali Khan, uno dei più grandi cantanti al mondo, leggenda pakistana del canto Qawwali. Si dedica ad un progetto rivelatosi poi non trascendentale come ‘Ovo’, colonna sonora del ‘Millennium dome show’, e compra una tenuta in Sardegna. E proprio ad Arzachene tiene un piccolo concerto nel 2002, un’anteprima mondiale dopo anni si silenzio: appare sul palco ingrassato e calvo, e per i fan se non è uno choc ci manca poco. Nello stesso anno uscirà quello che a tutt’oggi è il suo ultimo album di inediti, ‘Up’, un disco diventato maggiorenne senza eredi. L’attesa è spasmodica, e il disco non è brutto, ma nemmeno eccezionale. Il single è ‘The Barry William show’, ma i brani più belli sono ‘Sky blue’, con i fenomenali Blind boys of Alabama e ‘Signal to noise’, pezzo al quale la voce di Nusrat Fateh Ali Khan regala pathos e suggestione. Il cantante pakistano era morto prima della registrazione del disco, ma Gabriel usò un suo vecchio intervento vocale, e il risultato è straordinario. Poi non è male ‘ I grieve’ , una buona ballata. Ma è tutto qui. Segue un nuovo mastodontico tour, con la trovata kitsch di cantare ‘Growin’ up’ in una grande bolla di plastica, ma i segnali di stanchezza creativa sono innegabili. Peter riscopre la vita, si risposa con Meabh Flynn, che gli regala due figli maschi. Cala di nuovo il silenzio, finchè nel 2010 arriva a sorpresa un disco acustico di cover, ‘Scratch my back’, piacevole ma niente più. Lo porta anche in giro con un’orchestra d’archi, con la quale inciderà anche ‘New blood, un rifacimento dei suoi successi riletti da violini e violoncelli e ovviamente la sua voce. Voce che comincia a perdere qualche colpo dal vivo, com’è naturale che sia quando passi i 60 anni (e Bono ne sa qualcosa). L’esperimento è suggestivo e dal vivo è meraviglioso, perché quest’uomo ha il dono della poesia qualsiasi cosa canti con quella voce calda e densa di sfumature.
Da allora praticamente più nulla, si parla addirittura di una reunion con i Genesis per un minitour di ‘The lamb lies down on Broadway’: lui sta per accettare, poi la solita pigrizia ha il sopravvento. Ci sarà un tour per i 25 anni ‘So’, nel 2014, sempre col fido Tony Levin. Poi torna il silenzio, con qualche messaggio su Facebook e pubblicazioni di vecchi pezzi, come l’album ‘Rated’ dell’aprile 2019 in occasione del Record Store day, disco che raccoglie i brani delle colonne sonore con l’inedita ‘Everybird’, e la raccolta disponibile per ora solo on line di b sides ‘Flotsam and jetsam’. Intanto i fan non si danno pace, chiedono un nuovo album, che non arriva. Più probabile un tour di un nuovo disco di inediti, ormai, e forse bisognerebbe accettare che c’è un tempo per tutto e tutti. Perché Gabriel è volato sulla cima più alta del mondo, oltre non si poteva andare. E ora non gli resta che ripiegare le ali e guardare in basso. Come un arcangelo.
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