PiU’ SI AVVICINA la data del voto e più il gioco si fa pesante. A risentirne è il livello della comunicazione politica oramai ridotta a un assurdo teatrino dai toni farseschi. Ciò che conta è apparire e far colpo sul popolo degli indecisi. Una massa in continua crescita, complice la diffusa convinzione che non c’è limite al peggio. Ideologia e programmi non bucano il video, i partiti non convincono, ciò che conta è la forza del leader e, in particolare, della sua immagine. In un’Italia antica, quella passata dalla monarchia e dal fascismo alla Repubblica, tutto questo non sarebbe stato possibile. In un Paese stremato dalle guerre, erano lo scudo crociato, la falce e il martello, il sole nascente a rappresentare i simboli della rinascita. Solo dopo molti anni è arrivato il primo uomo partito, quel Bettino Craxi che negli anni Settanta ribaltò le regole del gioco. La sua immagine casual, simbolo di un’Italia che stava cambiando dopo il ’68 e il ’77, poi elegante e rappresentativa di un leader di statura europea, ha rappresentato il primo esempio di ritorno al capo carismatico che si sostituisce al partito diventandone padre e padrone.

TESTIMONIANO il passaggio epocale i manifesti dell’epoca che lo ritraggono sorridente e affabile. Il primo a raccogliere l’eredità di Bettino Craxi è stato proprio Silvio Berlusconi che con la sua discesa in campo, proponendosi come uomo nuovo in un mondo corrotto, convinse la maggior parte degli italiani travolgendo la «gioiosa macchina da guerra» che avrebbe dovuto travolgere il centrodestra. L’allora leader dei Ds, l’Achille Occhetto della svolta della Bolognina che mandò in soffitta la falce e martello del consunto Pci, finì per soccombere di fronte all’imprenditore di successo. Berlusconi, uomo-partito per antonomasia, avrebbe dovuto far rinascere l’Italia. Non c’è riuscito, ma quando le urne incombono, l’unico autentico fuoriclasse resta proprio lui. Non solo capace di uscire indenne da ogni situazione, ma addirittura capace di capovolgere i ruoli, trasformandosi da accusato in accusatore. È accaduto sul piccolo schermo con Travaglio che, viceversa, ha riproposto la solita serie di accuse alle quali il leader del Pdl ha fornito risposte già sentite e risentite, alle quali gran parte degli italiani sono assuefatti e in parte oramai impermeabili. Arrancano nel tentativo di somigliargli tutti gli altri «leaderini», come li chiama il Cavaliere, che non possono fare a meno di ricorrere al loro faccione visto e rivisto, ad argomenti triti e ritriti nonché a noiose alchimie per rendere credibili maggioranze che rischiano di sfaldarsi come neve al sole. Solo Bersani, pur non potendo evitare il primo piano, non si propone nel simbolo differenziandosi almeno in questo dagli altri candidati. Ma a rappresentare più di ogni altro il ritorno all’antico è proprio il primo fra gli innovatori che in una piazza virtuale si trasforma nel capopopolo perfetto. La teatralità di Beppe Grillo trionfa online e ciò che traspare in queste ultime settimane di campagna elettorale non è il suo programma, ma la sua maschera indignata nella quale si identificano milioni di italiani. Come dar loro torto se anche il professor Monti si assoggetta alle regole della propaganda e si lascia andare a usi e costumi tipici di quel mondo che sembrava non appartenergli quando accettò, proprio un anno fa, di mettersi al servizio del Paese? Oggi è salito in politica, forse troppo in alto, perdendo di vista il mondo reale.

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