Ieri mattina, salito sul vagone della metro di Milano della linea rossa che da Loreto mi porta alla fermata Turro, mi sono scoperto a indagare con lo sguardo sul contenuto delle borse e dei sacchetti della spesa dei miei vicini di tragitto extracomunitari, spesso la stragrande maggioranza degli utenti dei mezzi pubblici. Un’attività inutile ho poi pensato, perché fermare un attentatore un attimo prima che colpisca è alquanto improbabile. Non ricordo in tutta la mia carriera giornalistica di avere mai letto qualcosa di simile. Purtroppo è anche vero che certe notizie non è detto che abbiano il risalto che meritano, ma non è questo il punto.
Mi è tornato alla mente quanto mi raccontava a metà anni Ottanta uno studente di medicina israeliano che frequentava l’università di Bologna e abitava nel mio stesso condominio. Certe sere, essendo entrambi già giovanissimi papà, ci si vedeva a casa dell’uno o dell’altro per cenare insieme alle nostre rispettive compagne. E, come succedeva all’epoca, si finiva per parlare di politica, in particolare di Israele, della Palestina e della questione mediorientale. Volavano spesso stracci, perché io ero filo palestinese, soprattutto perché lui mi pareva (e lo era) un po’ troppo filo israeliano. Come molti ebrei era, e suppongo sia ancora perché dopo la laurea ahimè ci siamo salutati (ricordo ancora quel giorno gli abbracci e i lacrimoni) e non ci siamo più rivisti se non su Facebook, dotato di un insolito sense of humour. E così è vero che giustificava le maniere forti della destra più radicale, ma era capace anche di sfottere il suo popolo sempre pronto a commiserarsi e questo contrasto lo trovavo molto divertente. “Sai – mi diceva con quel tono da studente straniero – gli ebrei se li incontri tutti insieme piangono sempre, poverini…”. E con la mano faceva un gesto come per dire poverini un bel niente. Nello stesso tempo mi ripeteva all’infinito che io non potevo capire cosa volesse dire vivere nel terrore. Io mi arrabbiavo ferocemente, perché anche noi italiani, noi bolognesi soprattutto, avevamo avuto le stragi, quelle che la sinistra estrema chiamava di stato, e poi il terrorismo rosso che aveva generato gli anni di piombo e quanto questo ha significato per un giovane che dagli anni d’oro del movimento studentesco si è trovato all’improvviso catapultato in una realtà grigia per non dire buia. Lui mi guardava e alzava la spalla, come per dire “questo è niente”. E mi ripeteva un ritornello che non ho mai dimenticato: “Sai cosa vuol dire salire su un bus e la prima cosa che fai è guardare nelle buste della spesa delle donne? Nei loro passeggini? Stare attenti che non ci siano borse sospette abbandonate in giro? Per noi è normale farlo, sin da bambini”. Aldilà del pensiero che mi andava subito a quel “ebrei, poverini” che lui ripeteva in modo autoironico, in effetti quella frase mi impressionava e mi faceva tentennare, come se tutte le certezze ideologiche che mi accompagnavano si sgretolassero all’idea del doversi abituare a convivere con il terrore. Sono passati trent’anni e adesso anch’io me ne vado in giro facendo la stessa cosa. E forse non sbaglio. Non è più una questione ideologica, ma di sopravvivenza.