Qui, la storia degli imprenditori del mutuo soccorso: un microcosmo fatto di solidarietà e di comprensione in cui imprenditori sopravvissuti alla crisi tendono la mano a imprenditori che, come Renzo Balduchelli,  con la crisi hanno perso tutto. Di seguito l’intervista. 

«Perdi tutto. Azienda, case, moglie. Perdi l’orgoglio, la dignità e la tua identità. Ciò nonostante cerchi di tenere duro. I debiti, intanto, si accumulano. Tu, però, non vuoi mollare. E ripeti a te stesso ogni santo giorno la stessa cosa: ‘Dai che ce la fai’. Poi, però, per farcela bevi. E tanto. Ti rifugi nell’alcol anche solo per riuscire a tornare a casa. Con i tuoi fantasmi».
La storia è quella di Renzo Balduchelli (nella foto), torinese di 50 anni, ma potrebbe essere anche quella di tanti altri ex imprenditori, artigiani o commercianti che a un certo punto sono stati catapultati all’inferno. Con una vita che, semplicemente, è la brutta copia di quella precedente. E ti fa stare male. In certi casi, così tanto, da pensare di farla finita.

Balduchelli, facciamo un passo indietro: ci racconti quello che era la sua azienda.
«Ero proprietario di una società di trasporti che aveva quasi 80 anni. Apparteneva a mio nonno, poi è passata a mio padre e ai suoi fratelli, infine nel 1986 io e mio babbo decidiamo di andare avanti da soli. Dieci, dodici dipendenti, un fatturato di un miliardo di lire ai tempi d’oro, una sede a Torino e una filiale a Brescia, la città dove oggi vivo».
Poi arriva la crisi…
«È successo tutto da un giorno all’altro. Basta poco per andare giù. Nel nostro caso è stato sufficiente che un grosso cliente italiano ci mollasse. Era subentrata una multinazionale americana e ha spostato le sedi nell’Europa dell’Est, come hanno fatto tutti. Un ‘trasloco’ che per noi valeva il 70 per cento del fatturato. Un’immensità».
Con meno della metà del fatturato come se l’è cavata?
«Malissimo. Non ho versato l’Iva per continuare a pagare i dipendenti e non licenziare nessuno. Ma, così, ho pagato more su more, accumulando circa 500mila euro di debiti».
Non poteva fermarsi prima?
«Certo. Se l’avessi fatto, nel 2007, quando il debito era ancora di 240mila euro forse non mi sarei mangiato fuori tutto… Ma in quei momenti è una questione di orgoglio, pensi che segui quell’attività da trent’anni, che hai lasciato l’università per lavorare lì, in quell’azienda creata da tuo nonno. E ti chiedi: se mollo, dopo che cosa faccio? A 50 anni non è facile ricominciare. Avevo paura di restare a spasso».
Che cosa ha fatto, quindi?
«Ero disperato, non dormivo più la notte. La vita familiare era un disastro, stavo per avere un esaurimento nervoso. Non ho pensato al suicidio, come tanti miei colleghi. Ma per resistere bevevo. Non quando andavo a lavorare, ma subito, appena finivo. M’infilavo al bar sotto casa per stordirmi un po’. Non avevo il coraggio di tornare a casa. La notte avevo gli incubi, non riuscivo più a dormire. Pensavo ai debiti, a Equitalia che m’inseguiva, alla mia reputazione…».
A quel punto ha chiesto aiuto?
«Sì, mia madre aveva saputo dell’esistenza dell’associazione San Giuseppe imprenditore. Ho chiamato e Lorenzo Orsenigo e Sandro Feole (il commercialista dell’associazione) che mi hanno fatto capire che non c’era altra strada se non chiudere. ‘Non ti è rimasto niente. Per chi stai lavorando?’, mi hanno detto. E, con carta e penna, abbiamo cercato di fare due conti. Non c’era altro da fare: ho dichiarato un fallimento improprio».
È stato meglio così?
«Certo. Prima conducevo una vita borghese. Negli anni Ottanta portavo a casa uno stipendio di tre milioni di lire, tanti soldi allora. Ma ho sempre lavorato tantissimo. Mi svegliavo tutte le mattine alle 5,30 e rimanevo in azienda fino alle 19. Oggi non ho più nulla. Con mia moglie praticamente siamo separati, ma viviamo nella stessa casa, visto che non possiamo permetterci due affitti. Detto questo, sto meglio oggi. Dormo, non bevo un goccio d’alcol da due anni, sto più tempo con i miei figli…».
Nessun rimpianto?
«No. Perché non ho licenziato nessuno. Pur di non mettere a casa i miei dipendenti ho accettato prestiti da amici e consumato un po’ di soldi di una mia cara zia. Chissà se riuscirò mai a restituirglieli. Ma attenzione: a me, a differenza di altri, è andata bene. Ho chiuso l’azienda il 29 luglio 2016 e il 1° agosto ero già a lavorare. Dovevo montare valvole termostatiche e apparecchi contacalorie per un paio di mesi, ma fortunatamente mi hanno tenuto. Faccio un po’ di tutto, lavoro tantissimo, ma da dipendente oggi non ho pensieri».
È stato difficile adattarsi alla nuova vita?
«Ho sempre lavorato, la buona volontà non mi è mai mancata. E se ho trovato un’occupzione da operaio a tempo indeterminato credo che sia anche un po’ merito mio».
Che cosa dice ai suoi ex colleghi che si trovano in difficoltà?
«Quello che mi dissero all’associazione San Giuseppe: ‘C’è sempre una via d’uscita’».

Inchiesta e intervista pubblicati su QN il 20 novembre 2017

Rosalba Carbutti

Twitter: @rosalbacarbutti

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