Giovedì 16 Maggio 2024
LEO TURRINI
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Olimpiadi, Tania Cagnotto e Francesca Dallapé. La grande rivincita

Dall'inviato LEO TURRINI C’era tutta una vita, su quei trampolini appaiati. Anzi, ce n’erano due

Francesca Dallapé e Tania Cagnotto (Olycom)

Francesca Dallapé e Tania Cagnotto (Olycom)

Rio de Janeiro, 8 agosto 2016 -  C’era tutta una vita, su quei trampolini appaiati. Anzi, ce n’erano due. Di vite. Doppia è la ricerca della perfezione per chi assume l’onere di competere in coppia. Doppia è l’ossessione che ti perseguita, quando per anni e anni insegui un traguardo e quello ti si mostra e poi si allontana, finge di avvicinarsi e invece è soltanto un miraggio.

C’era tutta una vita, nello sguardo ansioso che Tania Cagnotto e Francesca Dallapè si sono silenziosamente scambiate prima di lanciarsi nell’ultimo tuffo, quello che non avrebbe avuto repliche, quello senza appello, quello che giustificava la fatica immane della persistenza, a cospetto di amarezze e di ingiustizie che si erano accumulate.

E io le ho osservate, negli attimi che precedevano l’approccio con l’acqua. Liberazione o tormento infinito. Felicità o disperazione. Lo sport così sa essere, in bilico tra la felicità e la depressione, in un viaggio tortuoso tra sentimenti, sgomenti, impedimenti dirimenti, eccetera.

Erano seconde, Tania e Francesca. Seconde, appese a un filo d’argento. Quasi spaventate di essere sul punto di farcela. Lasciamo stare le cinesi, le cinesi nei tuffi appartengono ad una casta, ad una razza superiori, sono sublimi nella semplicità con la quale si esibiscono in piroette sempre irreprensibili, ineccepibili.

Invece la Cagnotto e la Dallapè sono italiane, italianissime. Hanno nel Dna la nostra propensione allo squilibrio, la nostra tendenza ad esasperare il dettaglio, la nostra maledetta mania di spccare il capello in quattro. E io continuavo ad osservarle, le contemplavo dall’alto come se fossero due divinità irrequiete, due giovani donne contese da demonio e santità.

Avessero sbagliato, consentendo la rimonta ad avversarie ormai rassegnate, mai se lo sarebbero perdonato. Avessero fallito ancora, si sarebbero consumate con il rimpianto, con la recriminazione, con è stata colpa tua no tua e insomma cose così, i bisticci di coppia, le frizioni di una qualunque relazione, nel nostro caso acquatica, sportiva, agonistica.

Ma no. Esiste un Dio dello sport e stavolta non si è distratto. Stavolta il tuffo finale di Tania e Francesca è stato magari non perfetto, non esattamente un capolavoro, ma sufficiente per andare a prendere un argento che giustifica ore, giorni, mesi, anni di allenamenti,  di ripetizioni, di dolorose ripetizioni, perché quando torni a tuffarti dopo una sconfitta, una medaglia mancata, ecco, non deve essere tanto semplice ripartire.

Per fortuna, la Cagnotto e la Dallapè sono ripartite. Cioè non si sono fermate. Hanno costruito sui loro errori, hanno imparato a rimarginare le ferite. E quando sono riemerse dall’acqua e fuori pioevva ed era tutto un bagno di gioia, la contagiosa felicità dell’impresa realizzata si è sciolta in altra acqua, l’acqua delle lacrime e meno male che papà Cagnotto, storico partner di Klaus Dibiasi una epoca fa, si è incaricato di dispensare sorrisi.

Che bello, quando l’incubo finisce! Mesi fa ero andato ad intervistare Tania. Mi aveva raccontato che dopo la tremenda delusione di Londra, la medaglia persa per una frazione di punto, soltanto la proiezione di un desiderio intimo, di riscatto, l’aveva salvata dalla melanconia del ritiro, dell’abbandono. E aveva convinto Francesca a non mollare nemmeno lei, per carità.

E ora eccole qua, eccoci qua. Un argento che vale oro. Sono contento di averla vissuta da vicino, una emozione così. Grazie, ragazze mie.