Enrico Ruggeri: "Il rifiuto della morte ci impedisce di vivere"

"Sul virus risposte caotiche. Chi governa ha seminato il panico. Giovani abbandonati davanti a uno schermo come zombi. Io di destra? No, dico quello che penso e non voglio etichette. Porto sempre la mascherina e appena possibile farò il vaccino"

Enrico Ruggeri

Enrico Ruggeri

"La salute è un diritto, ma anche uscire di casa lo è. L’aspetto drammatico dell’epidemia è che per paura di morire rinunciamo a vivere".

Parole e musica di Enrico Ruggeri: cantante, scrittore, conduttore televisivo. L’autore di Quello che le donne non dicono e Il mare d’inverno. E spirito libero contro il pensiero unico politicamente corretto. Impossibile etichettarlo. Anche se si porta dietro da anni il marchio di fascista.

Davvero è un uomo di destra?

"La definizione mi accompagna dal ‘78, quando incisi con i Decibel l’album Punk. Eravamo vestiti di nero e tanto bastò. Ho le mie idee. Sono fuori schema, dico quello che penso senza protezioni. Così capita di dare fastidio. Nel 2003, con la mia compagna Andrea Mirò, ho portato Nessuno tocchi Caino a Sanremo. Un brano contro la pena di morte non è proprio un tema della destra".

Covid, il bollettino dell'11 gennaio

Lei è molto duro con la gestione dell’emergenza Covid. Perché?

"Non è facile. Però chi sta al governo è chiamato a fare scelte, non può barcamenarsi e improvvisare. Il coronavirus ha trovato tutti impreparati e questo ha generato risposte caotiche. Ti raccontano cose terribili, danno i numeri di vittime e contagi senza spiegazioni. Logico che la gente sia impressionata".

E’ negazionista?

"Macché. Per il mio lavoro faccio un tampone ogni tre giorni, più dei calciatori. Rispetto il distanziamento e uso la mascherina. Mi vaccinerò, sperando di diventare immune e tornare alla normalità. Però tanta gente muore per il Covid, ma tantissima continua a morire di cancro e malattie cardiovascolari. E’ un fatto".

Vuol dire che non accettiamo più l’idea della morte?

"Il punto è questo. L’uomo è l’unico animale consapevole della propria finitezza. La scienza insegue l’immortalità, o quantomeno il modo di allungare la vita. Frankenstein di Mary Shelley è il simbolo di un’eterna ricerca. Ma non si può vivere a ogni costo: a un certo punto si scende dalla giostra. Concetto naturale che oggi rifiutiamo".

Una rimozione?

"Usiamo la parola morte in senso figurato. La mano morta, il binario morto, il tiro a foglia morta. Se un essere umano muore diciamo: si è spento, è scomparso".

E la fede? La religione?

"La società è secolarizzata, la Chiesa dilaniata non sa più essere consolatoria. La proposta della vita eterna è un’idea alta che si schianta contro crisi di vocazioni, scandali sessuali, appropriazioni indebite".

Torniamo alla politica applicata alla pandemia: solo errori involontari?

"Ogni decisione viene spiegata così: lo facciamo per la vostra salute. Ma si parla tanto del virus perché l’interesse del potere è che l’emergenza continui il più a lungo possibile. Davanti alla paura invochiamo la stabilità, il problema più grande mette in secondo piano il resto. E gli altri stanno messi come noi: America, Francia, Inghilterra, Spagna, perfino la Germania. Passa la linea del mal comune mezzo gaudio".

Se lei fosse il ministro della Sanità?

"Non è il mio mestiere. Chiederei indicazioni ai filosofi più che ai virologi star".

Chi è più colpito da questa vita sospesa?

"I ragazzi. Ho due figli minorenni. La piccola ha 10 anni e se la cava: va a scuola, vede i compagni. Ma il maschio di 15 è nei guai. Già in una situazione normale un adolescente fa fatica, figuriamoci adesso. Sta ore e ore davanti al computer a giocare a Fortnite, uno zombie nel momento in cui si forma il carattere. Come padre non ho un’alternativa da offrirgli, neppure tirare due calci al pallone insieme nel parco. Quelli della sua età saranno segnati da ferite indelebili".

I ragazzi del dopoguerra camminavano fra le macerie: perché loro ce l’hanno fatta?

"Altra generazione, ha sviluppato anticorpi formidabili per guadagnarsi la pagnotta. Rivera, che è del ‘43, ha esordito in serie A a 16 anni. E Gianni Morandi, classe ‘44, da bambino vendeva bibite al cinema e la sera saliva sul palco a cantare".

Lei ha denunciato il pericolo della droga...

"Ho visto molti morire di eroina, la cocaina era per i ricchi. Poi c’è stata una diabolica operazione di marketing criminale. Il risultato? Il muratore e il tassista sniffano. E farsi una pera nel bosco di Rogoredo costa appena dieci euro. Sa quanti genitori disperati vanno lì a cercare i figli? Una dose è la via di fuga a buon mercato per chi non ha un progetto forte".

Le sue canzoni hanno raccontato la vita e l’Italia. Adesso lo fa con un romanzo importante: che cos’è ‘Un gioco da ragazzi’?

"Un romanzo storico di 446 pagine, scritto nei tre mesi del lockdown e pubblicato da La nave di Teseo. I giovani lo leggono perché capiscono chi sono i loro genitori: il boom, la contestazione, gli anni di piombo, il riflusso. In questa famiglia borghese ci sono due fratelli su posizioni opposte. Mario, milanista, sta con l’estrema sinistra; Vincenzo, interista, milita nel Fronte della gioventù. Entrambi finiscono nella lotta armata con un destino tragico".

La morale è che nessuno si salva?

"C’è un terzo personaggio: Aurora, la sorella minore. Fa da cuscinetto tra i fratelli e trova nella musica l’armonia".

Ma un musicista senza concerti come si sente?

"Malissimo. Lo spettacolo vive una condizione umiliante e persecutoria. Centinaia di persone sono in mezzo a una strada nel disinteresse del ministro competente".

Quest’epoca è difficiletta per la penna, scrisse nel 1925 Majakovskij in morte di Esenin. E’ lo stesso oggi?

"La domanda è perfida. Una trappola. Mi porta a rispondere che prima era tutto più bello e faccio la figura del passatista. La politica era Berlinguer, Moro, Andreotti, adesso è tornaconto e tifoseria. Ho visto giocare Di Stefano e Puskas contro la grande Inter nella finale di Coppa dei campioni del ‘64. Leggevo le strisce di Linus. Gli influencer si chiamavano Flaiano e Pasolini mentre sui social imperversa Fragolina2003. Della musica non vale parlarne: Jethro Tull contro rapper. Le quote rosa sono umilianti per le donne, l’antirazzismo si veste di ipocrisia. Respiriamo stupidità e ossessioni. Ha ragione Verdone: signori, a queste condizioni non siamo più in grado di farvi ridere. Posso chiederle quanti anni ha?". Sono del 1957, nato nove giorni prima di lei e la penso allo stesso modo.

"Ecco, diranno che siamo due vecchi tromboni. Ma non è vero".