C’erano una volta adunate e processioni. Il Coronavirus ci ha portato via il pubblico

Dalle manifestazioni politiche ai mega concerti: con la pandemia si sta perdendo la condivisione sociale, motore della storia. Chiusi in casa, se dobbiamo uscire lo facciamo in fretta per paura. Oggi ci specchiamo sempre più diffidenti l’uno nell’altro

Migration

"La vera tenerezza per gli esseri umani ti sopraffà quando non ti stanno più intorno", diceva Elias Canetti che sull’argomento era piuttosto ferrato, avendo impiegato circa quarant’anni della propria esistenza per completare la scrittura del monumentale saggio Massa e potere.

Oggi il potere c’è sempre, manca la massa. Per via del Covid stiamo imparando a vivere nel vuoto delle altre persone. Viviamo un dolore solitario, come quello che attanaglia la città della Peste di Camus: "Quella reclusione che portava con sé una spaventosa libertà rispetto a tutto ciò che non era il presente, mentre era verso la felicità che tutti volevano tornare". Di anime in attesa, parla Camus, e noi quello siamo. Chiusi in casa, in attesa che tutto questo finisca, e se andiamo fuori, andiamo fuori da soli, stiamo in fila da soli, distanziati, sospettosi, pronti alla fuga. Siamo pubblico assente dai cinema, dai teatri o dagli studi tv: su La7 Zoro, a Propaganda Live, ha piazzato su ogni poltrona del suo salotto tv il cartonato di un personaggio noto, da Ezio Bosso a Thom Yorke, da Proietti a Ocasio-Cortez; a Ballando con le stelle la Carlucci invita i concorrenti a ringraziare per gli applausi una platea inventata al computer.

Bollettino Covid: dati del 22 novembre

Stadi vuoti, pubblico assente dalle partite il che, se il sommo attore fosse ancora vivo, irriterebbe non poco Carmelo Bene: meglio gli stadi pieni di ultrà una volta alla settimana, diceva quando ancora si giocava solo di domenica, perché almeno i delinquenti stanno tutti chiusi radunati in un unico posto, e la gente perbene può camminare tranquilla nel resto della città. Non c’è pubblico che si affolla ai concerti: ora vanno di moda queste cose in streaming. Ti piazzi su una seggiolina o sul divano, guardi il tuo cantante rock e i suoi duetti virtuali sullo schermo e alla fine non è più la musica che ti trafigge il cuore, ma il senso di isolamento che arriva dritto a offuscare il cervello, perché veniamo da lì e lì vogliamo tornare, alla musica che è condivisione. Alla musica che è stare ore in piedi ammassati alle transenne, avanzare sgomitando tra gli avversari umani come Indiana Jones avanza nella foresta a colpi di machete per conquistare un posto sotto il palco, cantare tutti abbracciati, urlare brus brus brus, ballare pogando tirando calci e saltando sui piedi degli altri, sì, ho cinquant’anni ma adesso ne ho 20, come te, come tutti. Noi. Qui. Il rock è fisicità, è sesso, è amore: farlo al computer? Possibile, certo, ma anche abbastanza inutile, abbastanza e infinitamente triste.

Canetti, Freud, Le Bon (Gustave, non Simon il pur esperto in sterminate folle di fan impazzite cantante dei Duran Duran): ciascuno di loro ha studiato e dato nomi e sostanza storica, sociale e psicologica ai misteriosissimi meccanismi che trasformano un gruppo di individui in una massa. Le Bon in Psicologia delle folle (1895), individuava nell’agglomerato umano una forza di distruzione priva di una visione d’insieme, indisciplinata. Per Le Bon, studiato da Hitler, Stalin, Mussolini, è la massa l’inconscio collettivo attraverso il quale l’individuo si sente deresponsabilizzato e viene privato dell’autocontrollo. Anch’egli studioso di Le Bon, ma ovviamente contaminato dalla propria elaborazione della teoria degli istinti, Freud riteneva invece che le masse siano tenute insieme da legami libidici: ogni individuo nella massa agisce sugli impulsi d’amore (libido) che vengono deviati dai loro obiettivi iniziali (l’unione sessuale), per il raggiungimento di altri scopi, tra cui l’unione sociale. Prevedeva quanto sarebbe successo nei live di Lou Reed e Bowie, Prince e Springsteen? Prevedeva il sentimento – non già la violenza – che avrebbe fatto scendere in piazza milioni di studenti, operai, attivisti, dal ’68 in poi?

Diventare la squama di un serpentone di un corteo che invade rumorosissimo e libero una città, definire noi stessi abbattendo il nostro confine e mescolandoci all’altro, pulsare insieme agli altri con cori e parole, con una comunicazione e un linguaggio che è "un contatto di pelle contro pelle": il popolo unito non sarà mai vinto, cantavamo da giovani mille anni fa, il popolo dei ragazzi di adesso pronto a protestare contro la Dad, soli pochi mesi fa – sembra un secolo – si scopriva con emozione collettività e movimento di speranza all’insegna dei Fridays for Future, mano nella mano, dietro centinaia di striscioni.

"Ho conosciuto la felicità, so cos’è, posso parlarne con competenza, e conosco anche la sua fine, ciò che ne deriva di solito", scrive Houllebecq nel suo ultimo Serotonina, che è dedicato alla fine dell’illusione dell’infinità delle possibilità, anche quelle, secondo lui, riposte nell’impegno e nella mobilitazione politica. "Un solo essere ti manca, e tutto è spopolato. Un solo essere ti manca e tutto è morto, il mondo è morto e sei morto tu stesso".

Non c’è pubblico ai funerali, ai figli non è concesso salutare i genitori, ai genitori non è concesso salutare i figli, agli amici gli amici. Essere un pubblico significa condividere, e condividere significa mettere in comune con l’altro: annullare o diminuire le differenze, un processo che per molti è connaturato all’essere umano, perché l’essere umano è per sua natura portato a vivere insieme ai suoi simili e vivere con gli altri implica la necessità non già della guerra tra poveri, e dell’odio, ma della condivisione. Dell’amore. "Si impara solamente da coloro che sono in tutto diversi da noi. Si trova la quiete accanto a chi ci è affine": da soli non siamo nulla, spiega Canetti. "Tutti sopravviveranno, o nessuno".

Hai già un abbonamento?
Questo articolo è riservato agli abbonati

Accedi senza limiti a tutti i contenuti di iltelegrafolivorno.it e dei siti collegati.Naviga senza pubblicità!

ABBONAMENTO SETTIMANALE

2,30 € 0,79 € a settimanaper le prime 24 settimane. Addebito ogni 28 giorni.
Nessun vincolo di durata. Disdici quando vuoi
mese
anno