In quel lontano 1966, come canta Venditti, la regina d’Inghilterra era Pelè. Ma il vero idolo dei ragazzini di allora era Eusebio, la pantera del Mozambico, la punta di diamante di un Portogallo pieno di stelle, con Simoes, Torres e Colunha a comporre un quartetto di inarrestabili moschettieri.
Erano le colonne di un Benfica due volte campione d’Europa, i mostri sacri di una generazione irripetibile, fino ai giorni dell’impomatato Fenomeno di oggi: Cristiano Ronaldo.
Nel minuscolo album di figurine della Ferrero avevo preso confidenza col naso camuso e i riccioli infiniti di quel figlio del Mozambico. E quando la Corea del Nord del dentista Pak Doo Ik spazzò via l’Italia, fu naturale mettersi a fare il tifo per Eusebio e il suo fantastico Portogallo. Fra una corsa in bicicletta e una gara di tappi con le faccine dei ciclisti, misi l’orecchio al transistor di mia sorella per ascoltare la diretta di Corea Del Nord- Portogallo, la sfida del quarto di finale che sarebbe spettato all’Italia. Bene, dopo venti minuti quelli che l’osservatore Ferruccio Valcareggi aveva definito ”Ridolini” nella sua relazione a Edmondo Fabbri, vincevano per 3-0. Fu allora che la Pantera del Mozambico decise di rompere gli indugi: uno, due, tre, quattro gol, con la sua leggenda che si gonfiava ad ogni pallone insaccato. Finì 5-3 per il Portogallo ed Eusebio divenne la stella di quel mondiale. In semifinale due gol di Bobby Charlton spianarono la strada a un’Inghilterra già predestinata al successo, ma la Pantera del Mozambico (in gol su rigore) finì il mondiale con 9 reti e il titolo di capocannoniere.
Nutrito da quelle forti emozioni, dilatate dalla fantasia di un bimbo di dieci anni, feci di Eusebio il mio idolo assoluto, avvicinato solo dal portiere russo Lev Yashin. La strada della vita e il mestiere di giornalista mi avebbero permesso, molti anni dopo nel 1982, di conoscere personalmente la mia leggenda di quei mondiali. Come inviato debuttante, fui spedito sulle piste del Brasile di Tele Santana, un’orchestra calcistica quasi inarrivabile, con Zico, Socrates e Falcao a dirigere. Durante un allenamento della selecao a Carmona, una ventina di chilometri da Siviglia, si presentò al campo un terzetto memorabile composto da Bobby Charlton, Franz Beckembauer e il mitico Eusebio. Proprio lui immutabile: stessi lineamenti, stesso naso, stessi riccioli. Solo qualche chilo di più, a denunciare gli anni trascorsi.
Con un gruppetto di colleghi ci avvicinammo quasi timorosi per chiedere un pronostico sul mondiale, una battuta sul Brasile e magari sull’Italia. Non ricordo più cosa rispose il grande Eusebio. So che mi tremavano le gambe dall’emozione, mentre lui arrotolava il suo dolce portoghese, rallentando le candenze per farci capire meglio. Lo avrei ritrovato molte altre volte in giro per il mondo come ambasciatore del calcio lusitano, ovunque amato e rispettato come un simbolo del pallone. E di un’ umanità troppo spesso dimenticata.