Twitter vietato ai calciatori italiani che giocheranno il mondiale in Brasile nel giugno prossimo. Il diktat di Cesare Prandelli, uno dei Ct più umani e accomodanti che la storia ricordi, ha sorpreso un po’ tutti. Ma come, nell’era della liberalizzazione totale, in un calcio che ha sdoganato il sesso, il fumo, le discoteche, le ore piccole e le corse in auto a 200 all’ora, che battaglia è questa contro Twitter, il social network più diffuso, il cinguettio in Rete che appassiona il mondo?
Per capire meglio la scelta di Prandelli bisogna aver vissuto qualche mondiale, frequentato i ritiri azzurri, seguito l’evoluzione di questa condizione di vita davvero speciale che si verifica quando ventitre calciatori si ritrovano fianco a fianco, stile college, per un periodo che può arrivare a oltre 40 giorni, compreso il premondiale. Bene, nei ritiri pallonari Twitter ha soppiantanto le carte, il biliardino, le cuffie per ascoltare musica (peraltro sempre in voga), i giochi elettronici. I calciatori preferiscono il loro confessionale privato online, dove annotare le piccole cose di ogni giorno, seguendo, nel contempo, le microvicende personali dei tanti followers che li idolatrano.
E’ come un grande gioco, un televisore privato sempre acceso che in più ti dà la possibilità di interagire con un presunto mondo. Il guaio è che Twitter, come ogni abuso della Rete, tende a limitare i rapporti umani invece di moltiplicarli, a fare di un gruppo di calciatori ventitre individui immersi ciascuno nella propria sfera virtuale. Non ultimo, Twitter diventa anche il luogo dove sfogare gli umori negativi, le rabbie represse, le lune nere dei calciatori. E siccome molti giornalisti frequetano assiduamente il mondo elettronico, di lì possono nascere infiniti spunti di polemica, capaci di avvelenare l’ambiente.
Per capirci, immaginate se, durante il silenzio stampa del 1982, quello che pilotò gli azzurri verso il mondiale, ci fosse stato Twitter. Ogni sfogo, ogni rancore verso i giornalisti o le scelte dell’allenatore sarebbe stato incanalato nel confessionale elettronico scatenando un putiferio inimmaginabile. E forse quel mondiale, costruito fra rabbia e silenzio, non l’avremmo mai vinto. Ecco perché plaudo alla decisione di Prandelli: per giocare un buon mondiale si può vivere quaranta giorni senza Twitter. Ne guadagneranno i rapporti umani, il senso del gruppo, la voglia di dividere insieme qualche momento di vita vera, piuttosto che rifugiarsi nel comodo eremo elettronico.