La favola di Adila, tornata alla vita dal baratro del Covid, ha tutta la potenza narrativa della realtà. Adila non si chiama così, ma è l’unica cosa non vera di questa storia. È un fatto che medici e infermieri del Sant’Orsola di Bologna l’abbiano salvata con la scienza e i farmaci, dopo settimane di terapia intensiva. Altrettanto vero è che hanno anche usato la medicina più potente che c’è: l’umanità. Adila, pachistana di origini, ferrarese di adozione, ha 11 anni e per questo non è giusto rivelarne l’identità. Possiamo però svelare i principi attivi del medicamento che le ha salvato la vita e il sorriso: carezze e il conforto continuo delle parole, giorno e notte, e la forza di tenerle la mano, tutte le volte che poteva sentirsi sola ad affrontare il mostro chiamato virus. Le hanno anche somministrato un lenimento che cura anima e corpo: la musica. La sua preferita. Questa è l’umanità che ha strappato Adila ai suoi incubi e ai tubi della terapia intensiva. Quando suo padre ha potuto riabbracciarla ha sussurrato piano una parola che era un urlo di gioia: “Grazie”.

È la stessa parola messa nero su bianco da una professoressa marchigiana di Penna San Giovanni, rivolta a medici e infermieri di Macerata e del Covid Hospital di Civitanova. Ha scritto Nicoletta Perozzi, 59 anni: “Sapevo che sarei morta, perché quando arriva la senti, la riconosci”. Ma su quella strada la professoressa ha incrociato sguardi che l’hanno aiutata a tornare indietro, a casa, guarita. E anche in questo caso umanità è la parola che riassume tutta la storia: “Di voi mi restano i vostri occhi – aggiunge – perché solo quelli potevo vedere. Ma resteranno per sempre nei miei ricordi. Grazie a tutti voi”.

Abbiamo raccontato di Adila e Nicoletta in questi giorni sul Carlino. L’ultima notizia è che la Fondazione Gorbachev ha candidato medici, infermieri e tutto il personale sanitario del nostro Paese al premio Nobel per la Pace. Giusto. Anche se il premio più grande è una parola che conosciamo già bene: grazie.

  Gianluigi Schiavon