IO-MENNEA

 

«Doping, scommesse. C’è di tutto… Alle volte sembro un alieno. Mi trovo a descrivere cose che hanno poco a che fare con la società, alla luce di ciò che accade. Ma quando incontri la gioventù, non puoi fare a meno di parlare di valori. Altrimenti in questo mondo non si può andare avanti».

Pietro Mennea da Barletta, nato il 28 giugno 1952, camicia azzurra, gemelli, cravatta e capelli bianchi, lo avevo incontrato nella primavera del 2011. Parlava agli studenti. Lo faceva perché  «lo sport dovrebbe essere al centro del sistema educativo di un Paese. Perché non si può raccontare ai giovani che si può andare lontano facendo i furbi».

Dipingeva l’uomo, lo sportivo, il campione olimpico, il ‘velocista bianco’ che ha detenuto per 17 anni il record del mondo sui 200 metri. Quei 19 secondi e 72 centesimi «che ancora la gente gioca al Lotto», quelli che facevano sì che quando Usain Bolt metteva piede in Italia, fosse lui la prima persona che chiedeva di incontrare.  Quel ragazzo che ‘volava’ su una strada di terra battuta, sfidando auto di grossa cilindrata. Era la sua pista; le Porsche i suoi avversari più temuti.

E poi quei vent’anni di sacrifici, «passati a bere solo acqua naturale, a correre cinque o sei ore al giorno, tutti i giorni. E non mi sono mai strappato muscolarmente, né prima né dopo». Per questo, diceva, «lo riconosci quando uno ottiene risultati fasulli, lo vedi già dal suo programma di allenamenti. Perché non esistono cose facili nella vita. Io ho fatto sforzi notevoli, ho spostato l’asticella molto in alto. E ora, continuo a correre. Non mi sono fermato… » Nella vita?  «Abbiamo otto corsie. Mi piace usare questa metafora. Sette possiamo anche essere disposti a cederle al sistema. Ma una devono lasciarcela libera, serve per chi decide di camminare con le proprie gambe, di metterci l’entusiasmo, la testa, l’intelligenza».  E se fossi nato oggi, sottolineava, «farei meglio, credo. Ci proverei. Avendo a disposizione più strutture, più occasioni. Con lo stesso impegno e condizioni diverse, si potrebbe arrivare ancora più lontano».

Gli occhi non smettevano di guizzare. Li usava di continuo. Ci sorrideva, sottolineava le parole. Colorava quella sua cadenza un po’ così, mentre fra le mani non cessava di tormentare una Bic nera. E tra un autografo e l’altro, all’improvviso, ti spiazzava; con una di quelle uscite che facevano ricordare di essere di fronte a un uomo che ha scritto un intero capitolo della storia dello sport mondiale.  Di fronte a un campione vero, fatto di quella pasta lievitata a sudore, denti stretti e grinta da vendere.

«Ho smesso perché ero stanco. Avevo voglia di bere l’acqua frizzante, per 15 anni. Poi, passare magari anche a una birra… » Nel giugno 2011, quando si concedeva anche un bicchiere di vino apranzo, mi raccontava come il momento della più bello della sua vita dovesse «ancora venire. Ho tanto davanti… Perché il traguardo non esiste. Ci sono soltanto quelli intermedi. Faccio la professione di avvocato. È questo il mio impegno primario. Poi porto avanti l’impegno cominciato a Bruxelles, perché la mia avventura in politica l’ho presa seriamente. Era un lavoro vero. Ancora continuano a chiamarmi».

E la corsa? «Ho smesso con l’ultima olimpiade – scuoteva la testa -. Poi la vita disordinata che faccio adesso non mi permette di fare molto sport. Ci riesco in vacanza. Allora corricchio, con molto affanno… » Chissà le facce di chi lo incontrava… «Infatti succedono episodi simpatici. Spesso capita che mi riconoscano. Ci sono uomini, anche vestiti in maniera formale, con la giacca, le scarpe di pelle, che mi chiedono: Posso accompagnarla? E si mettono a correre di fianco a me».  Commentava Lightning Bolt, il fulmine. «In Jamaica ci sono molti velocisti, ma la differenza è che prima si trasferivano nelle università americane. Ora rimangono là ad allenarsi. La verità è che un vero campione può vedere la luce ovunque, anche a Barletta. Però, con la genetica giusta e tutto il resto, quello che nasce in Italia è il più forte di tutti ».

Poi, all’improvviso, si interruppe. Abbozzò un sorriso. E mi inchiodò con uno sguardo. «Non capita spesso, ma quando arrivano è così. Noi abbiamo qualcosa che non ha nessuno». E lo diceva di Pietro Mennea.