ARRIVANO con la macchina fotografica. Salgono sui cordoli, sulle sedie, sulle selle delle biciclette. Cercano ogni angolazione per ritrarre meglio i monumenti del terremoto. E farsi immortalare — magari anche sorridenti — davanti alle macerie del sisma che alle 4,04 del 20 maggio ha messo in ginocchio l’Emilia. Sono gli sciacalli della domenica. Una mostra qui, un aperitivo di là e (perché no?) anche uno scatto in posa di fronte alla facciata della chiesa di Mirabello; o con quel bel lampadario, donato da Italo Balbo, che pende dallo squarcio del Municipio di Sant’Agostino. Nessuno scrupolo. «Ormai siamo diventati una città turistica», sorridono amari i baristi.

A SANT’AGOSTINO e dintorni — tra una botta di sole e una di umidità — ieri sembrava di essere in una città d’arte. O, peggio, davanti alla carcassa della nave da crociera, quella Concordia che ancora giace inclinata davanti all’isola del Giglio. Le scene sono le stesse; gli stessi marsupi, canottiere e reflex a tracolla; la stessa mancanza di sensibilità. Cambia solo lo scenario.

SEI MORTI, diciasette indagati per omicidio colposo, oltre settemila sfollati, centinaia di fabbriche in polvere, migliaia di posti di lavoro a rischio. Non solo. Opere d’arte, beni culturali persi per sempre o che avranno bisogno dell’«ospedale» per essere (forse) recuperati. Le chiese e i campanili, quelli no. Alcuni sono andati giù a causa del sisma. Altri verranno abbattuti o fatti brillare. Di certo non torneranno. Non come prima. Cambieranno i simboli dei paesi, i profili delle piazze. «Ve li ricostruiremo ancora più belli di prima, non disperate», assicurava commosso il cardinale Carlo Caffarra, mentre baciava le rughe degli ospiti della casa di riposo di Mirabello. E forse avrà ragione.

MA DOPO una settimana da quando la terra ha gridato, nella provincia estense, non sono rimaste che le briciole di quella che era la nostra storia, industriale e contadina. Ci sono gli imprenditori, piccoli e grandi, che piangono tutta la loro impotenza, di fronte a ciò che non c’è più. O non è agibile. E alle decine di famiglie delle quali sentono la responsabilità. Ci sono i contadini con i fienili e i capanni distrutti, caduti sopra i trattori. L’unico strumento che avevano, emanazione delle loro mani, per poter mangiare. Finiti in fumo. Ci sono le scuole e i cimiteri chiusi, gli ospedali pericolanti, le attività commerciali in agonia. I palazzetti dello sport si sono trasformati in dormitori collettivi (il PalaReno di Sant’Agostino ospita ogni sera oltre 200 sfollati); gli psichiatri curano i bambini, ancora sotto choc, con incubi che non li lasciano dormire. La domenica del terremoto, è stato l’inferno. Ieri, la domenica dopo, il nostro viaggio nelle terre devastate è un elenco di sconforto.

Poi, però, un vecchietto su una panchina alza la testa e sorride: «Noi, da queste parti, siamo abituati prima a chiederci che cosa possiamo fare noi e poi cosa gli altri possono fare per noi». La vita continua.