«LE OPERE, una trentina, le ho salvate, sono riuscito a portarle via di qua». Al sicuro, in un capannone che («speriamo») non crollerà. Per il resto, dice, «non sappiamo che cosa aspettarci». Nicola Nannini, 39 anni — il pittore centese «anarchico e guerriero» che, secondo i critici, «mantiene salda la sua fede nel colore» — abita e lavora nella zona rossa della città del Guercino, a 50 metri dalla piazza devastata. Lì, attraverso le sue mani, prendono vita ritratti, notturni, paesaggi, vedute urbane e visioni «esplose»; nature morte intrise di umanità, di vita. Di ironia. Lì partorisce quadri sorprendenti, che spiazzano gli occhi e la pelle, gli stessi che corrono veloci da un angolo all’altro della tela chiedendosi se, davvero, non si tratti di una fotografia. Croste che, oggi, valgono dai 3 ai 40 mila euro.

LUI, nel mezzo del terremoto, guardingo e sorridente, continua a dipingere. Nonostante tutto. Nonostante la sua famiglia se ne sia andata da lì («la mia compagna e mia figlia non dormono ancora in casa»). Nonostante il centro storico sia blindato. Nonostante la soprintendenza non abbia ancora proferito verbo su che cosa ne sarà dei monumenti e dei beni architettonici che lo circondano. Lui, nonostante le crepe sui muri e sui nervi, resiste. «Io mangio, riposo, studio e dipingo in atelier. E qualche opera l’ho tenuta con me, ho bisogno che mi facciano compagnia». Perché «la cosa buona — sussurra — è che, in tutto questo, si riesca a dipingere e a sognare. Lo stesso». Che si riesca a immaginare.
Per questo non tratteggia «il terremoto», lui; anche se gli verrebbe facile, con quella sua capacità di immortalare il reale, tra pieghe di luci e ombre, tanto da farlo sembrare vivo. «Non voglio approfittarne, non voglio buttarmi su tutto questo dolore». Non ce n’è bisogno, dice. Sarebbe un po’ come trasformarsi in uno di quegli sciacalli della domenica, che scattano come pazzi, cellulari alla mano (sorridenti e in posa), davanti alle macerie di ciò che eravamo prima del 20 di maggio.

«IO VOGLIO rappresentare cose che mi portino lontano, regalare momenti di bellezza, se è possibile». A questo serve l’arte. Anche (e soprattutto) nei momenti di crisi, di incertezza. «L’essere umano deve venire sempre e comunque prima dell’artista. Deve saper fare un passo indietro». Solo così può toccare le corde giuste. La terra che grida sotto i piedi, almeno questo, «non lo farà crollare». Nicola lo sa. E — mentre lavora con gallerie private in Italia e all’estero e insegna disegno e figura alla scuola centese di artigianato artistico —, intanto, continua a imbrattare i suoi lenzuoli bianchi.