METTEVA i brividi passare davanti al Valli, ieri. Sotto un cielo grigio che trasudava goccioline, gli altoparlanti del teatro e delle panchine in piazza trasmettevano a tutto volume le opere di Claudio Abbado. Quelle che gli erano uscite dalla bacchetta proprio tra gli stucchi del Municipale; nel pieno di una storia d’amore durata più di cinquant’anni, fra lui e Reggio Emilia. La Settima di Beethoven, il Fidelio, Il Flauto Magico. E così sarà, anche oggi.
Quelle note immortali accompagnano la notizia della sua morte, rimbalzata in tutto il mondo in un lampo, pugno nello stomaco per chi della cultura ha fatto pane della propria esistenza. Ragione di vita. Ma anche per tutti coloro che alla ‘musica colta’ si sono accostati proprio grazie a lui; lui che credeva più di ogni altro all’importanza di avvicinarvi i giovani e i meno abbienti. Perché la ‘classica’ non diventasse nicchia d’élite.
Da tempo malato, Abbado si è spento ieri a Bologna, nella sua casa, all’età di 80 anni; «serenamente, circondato dalla famiglia», hanno comunicato i suoi cari.
Tra loro, il figlio Daniele, per dieci anni e fino al 2013 direttore artistico della Fondazione I Teatri. Indimenticabile la loro collaborazione nel mozartiano Flauto. Era il 2005. Lui alla bacchetta, il figlio alla regia.
«LA MUSICA ha a che fare con la vita. La musica salverà la vita». Chiosava così, tra le note, nel Ridotto del Valli, presentando le stagioni. Così spiegava la sua forza, di rialzarsi, anche dopo la malattia. «Per me ascoltare è la cosa più importante: ascoltarsi gli uni con gli altri, ascoltare cosa dice la gente, ascoltare la musica». Non a caso, convinceva tutti. Contagiava, tutti.
«Non Maestro,  chiamatemi Claudio. Io sono Claudio», ripeteva a chiunque lo incontrasse nei corridoi del Municipale. E così, alla fine, si obbediva.
«Claudio, come vuol essere chiamato da tutti, è il decumano di una civiltà basata sulla gentilezza e sulla musica», si legge nella poetica e sofferta nota che i Teatri hanno inviato, nel pomeriggio di ieri, in sua memoria. «Claudio Abbado è l’ispirazione e il cuore di questo nostro Teatro. Della cultura musicale di questa città. È la testa che ha liberato la musica nel nostro Paese e nel mondo; è l’anima dell’impegno per una musica per tutti e di tutti; è il cuore e le viscere di varie generazioni di musicisti e di ascoltatori. ‘Un impollinatore di orchestre’ disse qualcuno di lui».
UN RAPPORTO «privilegiato», «costante», il suo con Reggio Emilia. Così come con Ferrara e Bologna. «Esperienze lunghe, approfondite, che rispecchiano il suo modo di essere: come per il rapporto profondo che lo ha legato a tre capitali musicali: Milano, Vienna, Berlino. Tre civiltà musicali – o forse tre facce di un’unica grande civiltà musicale», dice chi nei Teatri, al suo fianco, ci ha lavorato.
Lo ricordano così. «Claudio, per noi porta sempre la sua camicia azzurra con i pantaloni cachi e il maglione rosso gettato sulle spalle, la bacchetta comprata per un dollaro a New York. Finite le prove gira per il centro di Reggio Emilia con la sua immancabile cuffia blu. Possiede quella virtù magica che, per i suoi musicisti e collaboratori è come l’aria, ti fa sentire di non sbagliare se segui sia la punta della sua bacchetta sia le pieghe del suo sorriso e, da oggi, il suo ricordo».
Con quella musica che, ancora, esce dal cuore di una città segnata nel profondo. Da Claudio.