Giovanni Panettiere

BOLOGNA

GLI SPARI, le urla, il sangue, i morti. Cinquanta in tutto nel locale  omosex trasformato in un cimitero. Il giorno dopo la strage di Orlando di due anni fa pochissimi vescovi statunitensi espressero le loro condoglianze, ancor meno sono stati quelli che hanno fatto esplicito riferimento alla comunità Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transessuali), colpita a morte dall’Isis. Quell’assordante silenzio ha tolto a padre James Martin, gesuita, 57 anni, firma tra le più apprezzate di ‘America’, la rivista della Compagnia di Gesù Oltreoceano, gli ultimi dubbi sul fatto che fra la Chiesa e la galassia omosessuale si frapponga un baratro. Un noi e un loro.

DA QUI l’urgenza, per accorciare le distanze e favorire il dialogo, di ‘Costruire un ponte’ (Marcianum press, 114 pagine, 15 euro), per dirla col titolo dell’ultimo libro di padre Martin, tradotto qualche mese fa in italiano. Un ponte bidirezionale (dalla Gerarchia cattolica verso gli omosessuali: da quest’ultimi verso il Papa, i vescovi, i preti e i diaconi) che poggia su tre pilastri imprescindibili: rispetto, compassione e sensibilità, richiesti da una parte come dall’altra. In fondo, nulla di più di quanto il Catechismo esiga dai fedeli nei confronti di gay e lesbiche, fermo restando il giudizio negativo della Chiesa sulla condizione omosessuale e soprattutto sui rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso (numero 2358).

IL LIBRO del gesuita, che non confuta la dottrina della Chiesa sull’omosessualità, né avalla il matrimonio omosex, è stato apprezzato tra gli altri dal prefetto del Dicastero vaticano per i Laici, la Famiglia e la Vita, il cardinale Kevin Farrell, e da alcuni vescovi statunitensi come il redentorista Joseph Tobin che lo scorso anno ha voluto incontrare nella cattedrale di Newark (la diocesi del porporato) alcuni omosessuali credenti. Di pari passo si sono levate anche critiche da parte dei settori ecclesiali più conservatori. La più netta è stata quella dell’arcivescovo di Philadelphia, Charles Chaput, che nel luglio scorso, in prossimità dell’uscita della prima edizione del libro, ha contestato l’approccio di Martin verso la galassia Lgbt, considerato troppo accondiscendente: «Gesù non è venuto a confermarci nei nostri peccati e comportamenti distruttivi, qualunque essi siano, ma a redimerci».

IN ITALIA la prefazione di ‘Costruire un ponte’ è stata curata dall’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. A proposito degli insegnamenti del Catechismo sui gay e lesbiche il presule scrive: «Non sono stati seguiti da una prassi pastorale adeguata che non si limiti solo all’applicazione fredda delle indicazioni dottrinali, ma faccia diventare quest’ultime un itinerario di accompagnamento». Quello che prova a tracciare nel suo volume padre Martin, da papa Francesco nominato consultore del Dicastero vaticano della comunicazione. Il gesuita sarà tra i relatori del IX Incontro mondiale delle famiglie che quest’anno si terrà in Irlanda, dal 21 al 26 agosto alla presenza dello stesso Pontefice. A Martin abbiamo chiesto di rispondere ad alcuni interrogativi sull’intricato rapporto fra fede cristiana e omosessualità.

Costruire un ponte fra la Chiesa e la comunità Lgbt: perché per lei questa è una priorità pastorale?

«Omosessuali, bisex e trans rappresentano il gruppo più marginalizzato oggi nella Chiesa. Molti di loro sono stati insultati o esclusi dai preti e da altri operatori pastorali. Credo che noi cristiani abbiamo una speciale responsabilità nel fare sentire accolte queste persone. Sono battezzate così come lo sono il Papa, il loro vescovo o me. Dovrebbero sentirsi benvenuti nella loro comunità ecclesiale».

Molti cattolici non intendono accogliere chi vive questa condizione, perché pensano che così la Chiesa finisca per legittimare il peccato: lì si può comprendere?

«Il problema di questo modo di pensare è che si riducono le persone Lgbt a questioni di morale sessuale, quando invece le loro vite sono molto più complesse. Non sono solo esseri sessuali».

Che cosa risponde a chi respinge l’omosessualità in nome della Bibbia?

«È importante non ignorare quei passaggi specifici presenti nel testo, ma vanno inquadrati nel loro contesto storico così come si fanno per gli altri versetti. Per esempio, in tanti fondano le restrizioni contro l’omosessualità nel ‘Levitico’ e poi ignorano le altre proibizioni e gli altri permessi dello stesso libro, come tenere schiavi o mangiare carne di maiale. Allo stesso modo per le ‘Lettere di Paolo’ dobbiamo ricordare che il modo di intendere l’omosessualità nel I secolo dopo Cristo è diverso da quello di oggi».

Il Catechismo considera l’omosessualità “oggettivamente disordinata”. Pensa che questo principio di fede ferisca i gay e le lesbiche?

«Molte persone Lgbt, se non di più, mi dicono che quelle parole sono profondamente dolorose per loro. Una volta la mamma di un omosessuale mi ha detto: “La gente si rende conto di che cosa può comportare un linguaggio simile su un quattordicenne gay? Può distruggerlo”. La Chiesa può ascoltare quella madre?».

Nel suo libro lei chiede a gay, lesbiche, bisessuali e trans cattolici di rispettare, avere compassione ed essere sensibili nei confronti di vescovi, preti e diaconi: non pensa che questo sia un impegno gravoso per chi magari ha subito o continua a patire forme di marginalizzazione nella propria esperienza di vita cristiana?

«Mi rendo conto che possa essere difficile per i credenti Lgbt, perché loro finora sono stati assai feriti dalla Chiesa-istituzione. Tuttavia per il dialogo questo passaggio è importante. Primo, perché questo è il modo cristiano di approcciarsi alle altre persone; secondo, la gente è più disponibile al confronto, se viene trattata con rispetto. Infine, è la via più pratica per lavorare con preti e vescovi che nella mia esperienza ho potuto constatare rispondono più facilmente a chi dialoga con rispetto piuttosto che a chi muove proteste rabbiose».

Diversi credenti omosessuali dicono che per loro con papa Francesco in definitiva non sia cambiato nulla…

«Non sono del tutto d’accordo. Lui è stato quello che ha detto “se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. In più ha ricevuto, durante il viaggio negli Stati Uniti, il suo amico Yayo Grassi e il compagno. Ha incontrato anche Juan Carlos Cruz, un omosessuale vittima di abusi in Cile, e ha riconosciuto che Dio “lo ha fatto in quel modo”. Non solo, è stato il primo Papa a usare la parola ‘gay’. Con lui il tono e l’attitudine della Chiesa in materia sono cambiati».

Bergoglio è lo stesso che ha confermato il divieto di accesso in seminario per chi ha “una tendenza omosessuale profondamente radicata”. Che ne pensa?

«Negli Usa vescovi e superiori religiosi interpretano in modo diverso questo divieto. C’è chi asserisce che nessun gay dovrebbe essere ordinato prete; chi limita il divieto a quegli omosessuali per i quali la loro condizione sessuale è centrale; infine vi è chi non ammette in seminario solo gli omosessuali incapaci di restare celibi. Io conosco qualche centinaia se non migliaia di preti omosessuali, bravi e preparati, che vivono serenamente il celibato».

A suo modo di vedere come si deve porre la Chiesa nei confronti delle famiglie arcobaleno, cioè verso quelle coppie dello stesso sesso che hanno dei figli?

«Come tutte le famiglie, i parroci dovrebbero fare sentire anche queste accolte nella Chiesa che dopo tutto è la loro casa. Soprattutto quando ci sono di mezzo dei bambini, dobbiamo essere accoglienti. Possiamo avere dei problemi col matrimonio omosessuale, ma non dobbiamo mai punire i più piccoli o tenerli lontano dai sacramenti. Se escludessimo tutte le famiglie che non sono ‘in regola’ agli occhi della Chiesa, allora dovremmo estrometterne molte altre, non solo quelle arcobaleno. Gesù chiama tutti alla sua tavola, noi siamo chiamati a fare altrettanto».