L’UOMO moderno ha smesso di credere nella resurrezione. Sulla scia dell’Illuminismo, considera vero solo ciò che può dimostrare. Per questo non sa che farsene del sepolcro vuoto e della vittoria di Cristo sulla morte, il terzo giorno di calvario. Ciò che i Vangeli riconducono al mistero della fine di Gesù per lui suona impossibile, inventato, peggio ancora, ridicolo. In un contesto in cui valgono solo gli atti di fede alla scienza, chi crede, e qui non parliamo della larga maggioranza che segue un cristianesimo-religione civile (tanti fanno proprio l’adagio di Benedetto Croce per il quale “non possiamo non dirci cristiani”), si trova davanti a un bivio: continuare a professare la vita eterna, quella del Nazareno e di conseguenza la nostra, nel modo in cui è stata tramandata in saecula saeculorum, confinandosi ai margini della modernità, oppure adeguarsi al sentire comune e sconfessare la resurrezione, rinunciando così a credere, come mette in guardia Paolo nella 1 Cor. 15-14: (“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”)?
DA CHE parte volgersi? Verso la conservazione o l’abiura? Il teologo Roger Lenaers sfugge il dilemma e prospetta una terza via per i cristiani del nuovo millennio. Da anni impegnato nel tentativo di coniugare cristianesimo e modernità, il gesuita belga ha da poco pubblicato un libro, Gesù di Nazareth. Uomo come noi? (Gabrieli editori), in cui prospetta la possibilità di “emancipare la nozione di resurrezione dal rivestimento mitologico che l’avvolge”. Una strada, quella della demitizzazione della Bibbia non nuova (l’apripista è stato l’esegeta tedesco Rudolf Karl Bultmann), ma che, assicura padre Lenaers, evita di far collidere il dogma di fede con i responsi della scienza moderna. In pratica, per il teologo “la nozione di resurrezione è sorta in una cultura premoderna: è un tentativo culturalmente determinato di definire esperienze che all’epoca non era possibile illustrare in modo diverso e migliore”.
ALL’EPOCA, perché oggi le stesse situazioni è possibile “esprimerle in modo diverso e migliore, è possibile e irrinunciabile”. Ma per farlo occorre abbandonare le certezze date da un linguaggio iperbolico, adottato dagli evangelisti per descrivere qualcosa di inimmaginabile come il ritorno alla vita di Gesù. “È troppo facile e dunque troppo poco plausibile – ammonisce padre Lenaers – pensare a una resurrezione corporale”. Ciò che è successo a Cristo è stata piuttosto “una fusione con il mistero originario che è Dio”, compiutasi non dopo tre giorni, ma sul Golgota al momento stesso del sacrificio in croce. È in quell’istante che il Figlio dell’uomo acquista la sua glorificazione, spiega il teologo facendo leva sul Vangelo di Giovanni, l’unico dei quattro che “spezza per un attimo la logica mitologica”. Morte e resurrezione dunque non sono più due tappe distinte. Coincidono. E noi possiamo vedere Gesù vivo (risorto), al pari dei discepoli di Emmaus ai quali sulla via del ritorno a casa lo straniero apre gli occhi. “Fa sorgere in loro un vedere interiore – chiarisce il gesuita -, un’esperienza di senso e pienezza alla quale prendere parte credendo in Gesù come in colui che vive. Dalla fredda cenere non nascono scintille, e da un morto non sorge vita”.
VENIAMO così a un altro fondamento della fede: la resurrezione dei morti o, come si diceva un tempo, della carne. “I miliardi di esseri umani succedutisi nella storia del mondo – si interroga padre Lenaers, ormai diventati polvere (o ancora meno), dovrebbero tutti risorgere, subito sani e salvi, in carne e ossa, risvegliati dal sonno della morte dalle trombe del Giorno del giudizio?”. Così ha inteso il dogma la Chiesa premoderna. Ma oggi si può rileggere anche questo paradigma? Il gesuita coglie la sfida: “Ciascuno di noi ‘risorgerá’, in maggiore o minore pienezza, in base alla possibilità che ha avuto il seme divino di svilupparsi nelle profondità del nostro essere. E non risorgeremo il Giorno del giudizio, ma al momento della morte. Come Gesù”. Vero Dio e vero uomo. Pari a noi, anche nella resurrezione.
Giovanni Panettiere
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