LA VITA non é dell’uomo, più ancora non appartiene agli uomini. A quelli che vogliono decidere loro se valga la pena che tu viva o meno. Loro al posto tuo che, dal punto di vista della fede, non sarai padrone della tua esistenza, ma di questa comunque ne sei il depositario, il responsabile ultimo. Sempre loro si arrogano il potere di scegliere al posto dei tuoi genitori, qualora tu sia troppo piccolo per avere voce in capitolo sulla tua vita. A Liverpool è successo in questi giorni agli sfortunati genitori di Alfie Evans, il bimbo di ventiquattro mesi affetto da una gravissima malattia neurodegenerativa, ai quali i giudici di Sua Maestà hanno impedito di trasportare il figlio in Italia nel tentativo disperato di trovare una cura.
SI ERANO fatti avanti per ricoverare il bimbo sia l’ospedale vaticano Bambin Gesù, sia il Gaslini di Genova, nosocomio di eccellenza in campo pediatrico nel quale si crede nella scienza non ai miracoli, si seguono protocolli e non si recitano rosari, a dimostrazione che forse per Alfie vi era una seppur timida, infinitesimale ragionevole speranza. Il dubbio resta e rimarrà con noi per sempre, perché, mentre nel nostro Paese dalle colonne di qualche giornale laico si dava spazio all’indignazione (minoritaria!) contro il governo, reo di aver concesso la cittadinanza italiana al piccolo, ad Alfie veniva staccata la spina. Nessun tempo supplementare per lui. Game over.
I SANITARI avevano assicurato che, una volta tolto il supporto vitale, il bimbo sarebbe deceduto nel giro di qualche ora e invece Alfie ha lottato quattro giorni. Abbastanza insomma per interrogarci su quanto sia stato davvero “nell’interesse del bambino” omettere la ventilazione artificiale piuttosto che procedere a un’eutanasia attiva previa sedazione profonda. Quesito antipatico di questi tempi in cui è facile demonizzare la dolce morte in Italia come a Liverpool, dove al pari dell’intero Regno Unito, è tuttavia possibile staccare la spina anche senza il consenso dei genitori di un minorenne in coma irreversibile. Il diritto britannico richiede un accordo tra questi e i medici e, qualora non lo si raggiunga, sta alla magistratura decidere.
UN PO’ troppo anche per lo statalista più accanito che, ce ne facciamo interprete, reclama la mano pubblica nell’economia, nel sociale, ma non sul fine vita. Dello Stato patriarcale, stile ius vitae necisque, non ne abbiamo certo bisogno. Lasciamolo alla storia, agli spartani, alla loro rupe Tarpea, tomba di bambini colpevoli di essere fragili. Come umanità abbiamo già dato. Fuor di retorica, se ci pensiamo per davvero, è la vita, non la villa al mare o il suv, il bene più prezioso a nostra disposizione. Cosi ha voluto Dio, per chi ci crede, che tutto si aspetta da noi tranne che la gettiamo alle ortiche nella droga, nell’alcol, nel gioco d’azzardo o che ci suicidiamo dopo la prima delusione d’amore. Siamo chiamati piuttosto a essere responsabili nei confronti di noi stessi, nella onesta consapevolezza che questa responsabilità possiamo esprimerla anche nella forma più tragica.
COME? Scegliendo di morire sulle orme di chi, imprigionato nel suo corpo e condannato a uno stato vegetativo, si decide per l’eutanasia o il suicidio assistito. Qui non si tratta di scansare la croce. Casi simili piuttosto sono paradigmatici di chi alla croce è già inchiodato da tempo, il Golgota lo ha già salito e, senza più lacrime da spargere, sceglie di vivere la vita con lucidità sino alla fine, morte compresa. Tutto vuole tranne che sprofondare, vinto dalla malattia, nel disimpegno, nell’incoscienza più assoluta, prolungata, non si sa fino a quando, dall’aceto della Passione, oggi non più liquido come quello offerto pietosamente al Cristo ormai esangue, ma meccanico.
SILENZIO e misericordia più che giudizio sarebbero servite e serviranno ancora per i vari Welby e Dj Fabo. Così come per i genitori degli Alfie di domani che implorano soltanto di lasciare i loro figli attaccati alle macchine salva vita, nell’attesa di un passo da gigante della medicina o di un miracolo del Padre eterno. Resistenza o resa (anche se il confine è tutt’altro che chiaro), siamo noi i soli a poter decidere della nostra vita, così come di quella dei nostri bambini. È una questione di responsabilità, di libertà personale sulla quale è lo Stato, non noi, a non dover avere alcuna voce in capitolo.
Giovanni Panettiere
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