Quello della notte di sabato è stato, almeno a Milano, un social sisma. Caratterizzato, oltre che dalla paura per le scosse, dalla rincorsa a rifugiarsi nell’abbraccio di Facebook.
Alle quattro del mattino, coi telegiornali ancora ignari del terremoto anche in versione on line, ecco invece decine, centinaia di persone pronte a sintonizzarsi con le facce amiche per sapere o spiegare: dov’era il sisma, che danni aveva provocato.
Qualcuno si è svegliato per il tintinnio delle campane tibetane, qualcun altro più prosaicamente per il letto che ballava o la libreria che scricchiolava. Ebbene sì, era proprio il terremoto.
Rassicurante, ma forse anche allarmante, pensare che tanti, prima di accendere l’abat jour, abbiano acceso il cellulare o il tablet. O magari non l’avevano proprio spento.
Resta collegato, è il messaggio poco subliminale che lanciano le pubblicità. E noi restiamo sempre collegati, nella gioia e nelle sciagure.
Si condivide. Tanto. Troppo? Nella grande piazza virtuale di Facebook, o con i più veloci scarni Tweet, i crolli di antiche mura e le perdite di vite umane, di sicuro fanno meno paura.