Astenersi dal post gli snobisti in servizio permanente effettivo. O il popolo di chi “ho ascoltato il loro primo demo e poi si sono troppo commercializzati e sono diventati troppo mainstream”. Nell’anno in cui Edoardo Calcutta, nuovo fenomeno indie (?) di quella galassia che indistintamente viene chiamata ancora il cantautorato degli anni zero (anche se abbiamo superato di gran lunga il primo decennio e ci apprestiamo ad arrivare al secondo di questo benedetto terzo millennio), pubblica un disco col titolo “Mainstream”, la televisione, anche quella di Stato, non fa più paura a chi fino a poco tempo prima girava l’Italia con i furgoncini e riempiva i clubbini di gente con borsa a tracolla piene di spillette. Teniamoci le spillette, le borsa a tracolla, le foto artistiche da mettere su Flickr o Instagram, ma anche tutto quello che significa vedere nel giro di una settimana I Tre Allegri Ragazzi Morti cantare e suonare da Fabio Fazio e The Zen Circus fare altrettanto, una settimana dopo, a “Quelli che il calcio”. Questo è l’anno del Signore in cui Manuel Agnelli, leader degli Afterhours, è diventato giudice a “X Factor”, diventando in qualche maniera anche idolo di chi non l’aveva mai sentito suonare e non sa tuttora che cosa siano gli Afterhours. Ok, poi ci sarà chi dirà (forse, anche legittimamente) che gli ultimi dischi de I Tre Allegri Ragazzi Morti e dei The Zen Circus non sono all’altezza delle prove precedenti. Che strizzano l’occhio al grande pubblico. Che sono troppo mainstream. Non fatevi prendere però da improvvisi eruzioni cutanee. The Zen Circus si sono presentati a “Quelli che il calcio” con una canzone che magari non ha la stessa rabbia e la stessa carica del disco “Andate tutti affanculo” (iconoclasta e liberatorio ma anche anticipatore di un certo Paolo Sorrentino, visto che all’epoca ripescarono prima del sommo in “Young Pope”, Nada), ma è un pezzo che funziona. E che rimane in testa. Poi come riesca Appino a non impappinarsi al microfono dovendo cantare nel raggio di pochissimi centesimi di secondo a mitraglia diverse parole è un altro discorso. Ma il pezzo ha comunque il suo perché. Riesce infondere lo stesso spleen natalizio come fece all’epoca “Canzone di Natale” e il periodo dell’anno per l’ascolto – che senz’altro facilita – è lo stesso. E poi alla prova dei fatti non possiamo che considerare un aspetto che non va assolutamente sottovalutato: la capacità di queste band di essere riuscite a “internazionalizzare” la scena indie italiana senza muoversi dal paesello. I catanesi Uzeda incontrarono Shellac, per loro Steve Albini (il produttore di “In Utero” dei Nirvana), e all’epoca fu amore (quasi) a prima vista. Ma andarono negli Stati Uniti. The Zen Circus sono riusciti a convincere Brian Ritchie dei Violent Femmes a fare un disco (non a suonare) con loro. Lo stesso Agnelli ha fatto qualcosa di simile con Greg Dulli e Mark Lanegan, giocandosi poi il jolly con fior fior di collaborazioni nell’edizione deluxe per l’anniversario di “Hai paura del buio”. Ecco, non scandalizziamoci se vanno in televisione. Teniamoci pure le spillette e le borsette a tracolla ma abbandoniamo per il momento la manichea lotta tra indie e mainstream. Sembra solo una dialettica di posa.